La Flora. 9 marzo 2013

di Gianna Lepri

La vita al Piano non era cambiata poi tanto, prima con l’occupazione dei Tedeschi, poi con gli Americani venuti a liberarci. Per noi ragazzi erano entrambi novita’ ghiotte. I carri armati, le camionette, le pistole abbandonate dai soldati sui sedili, che noi spesso si rubava, e allora si’ la faccenda si faceva pericolosa, e poi la cioccolata, le prime sigarette che andavamo a fumare giu’ al Campino, passandocele in cerchio, e continuando a tirare, nonostante il forte senso di nausea. Per noi ragazzi la guerra era guerra, che fosse contro i Tedeschi o contro gli Americani, si doveva essere pronti a rispondere al fuoco nemico. Lo Zulli, con la voce nasale e la lisca quando parlava, era il nostro capitano, auto proclamatosi in realtà’, ma noi lo si lasciava fare perche’ ci si divertiva a sentirlo parlare, quando impartiva gli ordini, con quella sua buffa parlata. Poi c”erano il galoppini. Il Cecchini, figliolo del fattore di Villa Pazzi, che ci riforniva di ciliegie rubate nel podere padronale, e il Necchi, ragazzo di bottega in un laboratorio di sacchetti di carta, che era addetto al rifornimento delle munizioni, fatte di sassi, nespole, ghiaino, limoni che sparavamo Durante fantomatiche incursioni fra i poderi delle ville e gli orti dei fattori.
Per noi ragazzi il mondo finiva li’, con quei giochi, il biliardo, al cui bordo si arrivava a fatica, la Casa del popolo, dove a turno si mesceva il vino ai compagni avventori.
Dall’altra parte, distanti, quasi in un altro pianeta, c’erano le ragazze. Anche loro dovevano avere i loro giochi, per quanto si potesse immaginare, ma piu’ che altro le si vedeva lavorare in gruppetti, chi sedute sugli scalini dell’uscio di casa, altre mezzo accovacciate li’ intorno su delle seggiolone di paglia, a sferruzzare, a fare l’uncinetto o a ricamare fazzoletti o federe per il futuro corredo, o su commissione di qualche signorona del posto. Erano rari i contatti, piu’ che altro ci si spiava fra i gruppi, e se non fosse stato per qualche cugina in comune che ogni tanto si infilava in mezzo a noi, si sarebbe detto che ci si ignorava.
I piu’ cresciuti del gruppo, gia’ con qualche esperienza fugace alle spalle, alludevano, con battute salaci e un po’ volgari, alle cose che facevano i ragazzi con le ragazze. Ma noi piu’ piccoli si capiva poco, non ci si badava poi tanto, sebbene qualche richiamo primordiale lo si avvertisse anche noi.
Fra le le piu’ civette che si facevano più Facilmente avvicinare c’era la Rosanna del Sarti, con quel nasino all’insu, che sembrava annusasse di continuo l aria calda dei Colli. E poi c’era la la Gina del Cappelli che si dava arie di gran bellezza, quando invece era una mingherlina, con un visetto smunto, che un pomeriggio s’era fatta baciare da Beppino, il piu’ sveglio del branco, ma quando aveva sentito in bocca quella cosa molliccia e umida, aveva cominciato a sputare per terra fino all’ora di cena.
E infine c’erano le ragazze grandi, quelle sui diciotto, vent’anni, che venivano su dal centro e che per noi ragazzi rimanevano un miraggio, da non osare neppure fissare troppo, tanto erano fini ed eleganti, a confronto con le misere vestaglie delle nostre mamme e delle zie, o delle ciabatte mezzo sfondate delle nostre nonne. Ma frà tutte la piu’ bella, la piu’ desiderabile, fresca, solare, inarrivabile era la Flora, l’unica del Piano, che s’era messa a fare la vita, a rallegrare, diciamo cosi’, il soggiorno degli alleati. Insieme alle ragazze di Porta Romana o delle Cascine, andavano a spassarsela alle feste che gli Americani organizzavano nei saloni delle ville nobili requisite. E noi ragazzi, giu’, nelle cantine, a finire gli avanzi prelibati dei piani nobili, le si sentiva ballare, ridere e cantare, soprattutto la Flora con quella vocina da soprano, che quasi faceva piangere quegli omoni gia’ mezzo ubriachi. Poi era tutto un fuggi fuggi. Chi si accoppiava sui larghi divani di broccato, coppie che salivano con passo maldestro e sbilenco verso le stanze padronali, o come la Flora che preferiva appartarsi all’aperto, dietro la limonaia, che si vedeva passare aggrappata a qualche tenente di turno mezzo barcollante.
Se la contendevano tutti la Flora, bella, dicevano, come la Gina Cavalieri, con quel caschetto di capelli neri ondulati, il collo lungo, le mani affusolate e quello sguardo languido e trasognato che tanto attraeva i soldati. E anche a lei piacevano tutti quei militari, soprattutto quando, finite le festè, si avviava verso casa, con le borse ripiene di meraviglie. Polli arrosti, tacchini ripieni, torte di mele, cioccolata, sigarette, profumi, tutta roba che in parte rivendeva al mercato nero, e in parte portava a casa per sfamare quegli sciagura ti della sua famiglia, col fratello Bruno piu’ dentro che fuori dal carcere, il babbo inabile al lavoro perche’ malato di tisi, e la povera mamma che sgobbava dall’alba all ‘Ospedale di Careggi a trasbordare i morti dalle barelle alle celle mortuarie.
E quel suo modo scanzonato, irriverente, tipico dei Fiorentini, di affrontare le miserie della sua vita difficile, con allegria e distacco, ce la rendevano ancora piu’ attraente, e piu’ volte noi ragazzi, ormai cresciuti, in eta’ adulta, c’eravamo ritrovati a ripensare alla Flora, a rivederla ancheggiare mezzo barcollante su quelle scarpe dal tacco troppo alto, con quei vestitini di mussola, un po’ scollati, che le segnavano il vitino di i vespa, e che si sollevavano ad ogni folata birichina di vento, e a farcela ancora desiderare, proprio come aveva fatto sognare gli alleati in quell’agosto del ’44.

2 pensieri su “La Flora. 9 marzo 2013

  1. Loretta

    Mi è piaciuto leggere questo racconto che ti porta dritto nell’atmosfera di quei giorni. Ma quello che mi ha colpito fin dalle prime righe è stato leggere una scrittrice che utilizza un io narrante maschile.

  2. Gianna Lepri

    Cara Loretta, ti ringrazio per le delicate osservazioni, era proprio quello che volevo comunicare, l’atmosfera di quegli anni, sentita raccontare quasi allo sfinimento da mio padre pluriottantenne, vissuti nella Firenze del ’44. Siamo talmente in simbiosi, che non mi sono nessuno accorta che scrivevo in sua vece. Grazie per avermelo fatto notare.
    Un caro saluto
    Gianna Lepri

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