Archivi categoria: Laboratorio 2012-2013: I racconti

PROVE DI EDITING

L’appuntamento il racconto vincitore della 3. edizione (2014) del “Premio Giorgio Borgognini” è stato sottoposto a un intervento di editing da parte di Laura Lepri in occasione del suo intervento a chiusura della stagione 2013/14 del Laboratorio di scrittura. L’autrice del racconto, Carmen Donadio sulla scorta dei suggerimenti di Laura Lepri ha prodotto una nuova stesura del testo che qui sotto viene riprodotta.

L’appuntamento

di Carmen Donadio

Tiberio rientrava a casa in treno dopo l’ultimo esame all’università. Era quasi sera, la nebbia e l’oscurità avanzavano insieme, nascondendo poco a poco le rotaie, i campi e le strade. I lampioni non erano ancora accesi, e lui, con le gambe molli e la testa dolorante, cercava di distinguere le ombre e le luci di fuori, qualcosa che gli confermasse che era quasi arrivato. Non vedeva l’ora di stendersi sul letto per poter cedere alla stanchezza. Il treno si fermò appena prima di entrare in stazione; la voce del capotreno avvisò di un guasto a un convoglio merci poco più avanti. «Maledetto! Maledetto treno, riparti!», il ragazzo seduto di fronte a lui diede un pugno sul finestrino dimenandosi sul sedile, accanto aveva delle rose rosse avvolte nel cellophane, un piccolo mazzo composto per lo più da boccioli. «Muoviti, dai!». «Non credo che ripartirà subito», sbuffò Tiberio innervosito. «Sono rovinato! Non mi aspetterà! Penserà che non sono venuto all’appuntamento», disse l’altro piegandosi in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Tiberio provò un misto di pena e fastidio per il tizio avvilito che gli si accasciava davanti, schizzava seduto dritto per ogni sussulto del treno e si contorceva le mani fissando le rose. Potevano avere la stessa età, pensò, anche se quello sembrava molto più stanco di lui. «Ma, se hai un appuntamento, vedrai che ti aspetterà», disse Tiberio. «Non è detto che mi aspetti», gli rispose, mordendosi le labbra e pizzicandole più volte tra indice e pollice. Poi tamburellò piano le dita sul vetro, lasciando un’impronta umida. Buio, nebbia e poche luci lontane; rivolti all’esterno, scrutavano il finestrino senza poter cogliere altro che il proprio riflesso. «Vedi, quattro anni anni fa, proprio oggi, ho incontrato per caso, qui in stazione, una ex compagna di scuola. Era tanto tempo che non ci vedevamo, forse dieci anni, e abbiamo passato una bellissima serata insieme». Si presentarono e Armando, rosicchiandosi le unghie, cominciò a raccontare della sua amica e dei loro ritrovi. Tiberio non aveva alcun interesse per quella storia, ma la circostanza non gli lasciava scampo. Venne a sapere così che dopo quell’incontro casuale, si erano salutati dandosi appuntamento all’anno successivo, sempre in stazione al binario uno, lo stesso giorno alla stessa ora. Per un paio d’anni, con sorpresa e divertimento di entrambi, il gioco aveva funzionato bene: abbracci, chiacchiere piene di domande e risate senza tregua, poi la cena e i saluti, prima di riprendere il treno, con la promessa di rivedersi ancora. Il terzo anno, l’appuntamento era andato benissimo: durante la cena, euforici entrambi, per aver finito gli studi lei e trovato lavoro lui, avevano brindato, incrociando i bicchieri e gli sguardi, e infine le gambe nel letto dell’hotel di fronte alla stazione. Persero il treno, e dovettero aspettare il primo della mattina successiva. Nemmeno in quell’ultimo anno avevano ceduto alla tentazione di telefonarsi o scriversi, perché era contro il regolamento che si erano dati. Armando però l’aveva pensata quasi ogni giorno e ormai era sicuro del suo amore per lei. Si sarebbe dichiarato quella sera, con i boccioli di rosa pronti a schiudersi. Tiberio si era pian piano appassionato al racconto e, quando Armando smise di parlare, si accorse di non sentire più la stanchezza che prima lo appiattiva sul sedile. Il treno ormai sembrava spento e Tiberio guardava Armando con la coda dell’occhio, cercando di non fissarlo troppo, perché si era chiuso in un silenzio rassegnato di braccia inermi lungo i fianchi con la testa abbassata che penzolava in avanti. Scattarono in piedi per un fischio assordante, il treno ripartì e in pochi minuti entrò in stazione. «Arrivederci», gridò Armando. Tiberio non fece in tempo a rispondergli. Riuscì a stento a vederlo correre sulla banchina e sparire giù per le scale, con le rose alte sopra la testa. Suggestionato dalla fretta di Armando e colto dall’ansia di non sapere cosa sarebbe successo, anche Tiberio si lanciò fuori dal treno e prese a inseguire l’ombra dell’altro, scendendo e poi salendo i gradini tre a tre. Arrivato in cima al binario numero uno, mise male il piede, perse l’equilibrio e picchiò le mani su un pilastro di cemento. Quando alzò la testa, lo vide. Armando stava appiccicato con la schiena su un lato dello stesso pilastro ammuffito, premendo sul petto il mazzo di rose. Si voltava con circospezione, come se non volesse farsi vedere. «Che fai?». «Levati, Tiberio, levati da qui!», sibilò con gli occhi spalancati. Tiberio, confuso, stava per andarsene, quando Armando lo colpì con i fiori, costringendolo ad appiattirsi di schiena sul pilastro insieme a lui: «Vedi quella ragazza? Quella seduta sulla panchina, con un libro in mano. È lei. Mi è venuto un colpo… che rischio… è una fortuna che non mi abbia visto. Come ha potuto farmi questo?». Nella confusione della stazione, Tiberio sentiva a tratti le parole di Armando, che era girato dall’altra parte, e vedeva solo il suo orecchio, rosso come i boccioli di rosa che gli sfioravano il mento, e la tempia coperta di ricci neri da cui colavano sottili gocce di sudore. Tiberio sporse la testa dal nascondiglio: a una ventina di metri, c’era una ragazza seduta su una panchina, leggeva un libro e dondolava una carrozzina. «Perché non la raggiungi?», chiese Tiberio. «Ma sei pazzo? La vedi, la carrozzina? Questa c’ha un figlio… febbraio, marzo, aprile, maggio…», Armando si mise a contare con le dita sulla bocca: «Se è nato in ottobre, adesso avrà tre mesi… No, non può essere figlio mio!». Armando puntò gli occhi in quelli di Tiberio, le iridi celesti erano quasi bianche, le pupille come due spilli, poi guardò il mazzo un po’ sgualcito, glielo passò con rabbia e si fissò le mani vuote: «Io me ne vado». Mentre Armando scendeva le scale e spariva dalla sua vista, Tiberio sentì il peso delle rose, e la stanchezza che aveva dimenticato tornò a riprendersi le gambe e la testa. Da quel punto protetto guardò di nuovo la ragazza: castana, capelli lunghi, pelle chiara. Lui cosa ci faceva ancora lì? Gettò quell’impiccio di fiori in un cestino vicino e cominciò a camminare verso l’uscita, ma, quando la vide agitare la mano in direzione di una donna che arrivava correndo, si fermò a qualche passo di distanza, dandole la schiena e fingendo di leggere il tabellone delle partenze. «Non è arrivato il tuo amico?», chiese la donna. «Non ancora, purtroppo», rispose la ragazza, con voce stanca. «E pensi di aspettarlo fino a quando? Ascolta la tua sorellona: che tipo può mai essere uno che non si presenta dopo quello che è successo l’anno scorso?». «Sì, forse hai ragione, ma aspetto ancora un po’». «Come vuoi, io vado a casa, è tardissimo. Grazie mille per avermi tenuto la piccolina, se non andavo in bagno adesso scoppiavo di pipì. In bocca al lupo! Domani ti chiamo». «Sì, ciao… crepi». Le due donne si salutarono con un lungo abbraccio, e Tiberio ne approfittò per muoversi e scegliere una posizione più sicura. Entrò nel bar e rimase a guardare dalla porta a vetri. La donna con la carrozzina si allontanò, mentre la ragazza, infilato il libro nella borsa, iniziò a passeggiare avanti e indietro, con il mento in su, squadrando tutti quelli che le venivano incontro. Dieci passi lungo il binario in una direzione, e venti nell’altra. Raccoglieva i capelli in una coda immaginaria, poi li lasciava cadere, ravvivandoli con una mano. Camminava piano, e quando un treno entrava in stazione si fermava a guardare con gli occhi stretti, avvolgendo sull’indice lunghe ciocche, morbide spirali che si scioglievano all’istante. Tiberio la osservava, chiedendosi se avrebbe dovuto correre a cercare Armando. Decise invece di aspettare, valutando la situazione che era cambiata in modo inaspettato sotto i suoi occhi, e cominciando a considerare quegli eventi non come casuali coincidenze, ma come segni del destino. Tiberio concluse che era una fortuna che lei non lo avesse visto e che Armando se ne fosse andato. La ragazza esaminò il grande orologio all’esterno della biglietteria, guardò ancora verso i binari e se ne andò. Tiberio corse al cestino, ripescò il mazzo e, mentre la seguiva, fu colto da una quasi totale assenza di suoni: niente più fischi di treni, nessun annuncio all’altoparlante, mute le voci concitate di chi stava partendo, e anche sulla strada le macchine in movimento non facevano alcun rumore. Per qualche secondo, sentì solo il battito del suo cuore e il leggero fruscio del cellophane che avvolgeva le rose. Finché non la raggiunse al semaforo e respirò. Fu investito dal fragore della strada e tornò il chiasso confuso della stazione alle sue spalle. La nebbia si era alzata e la sera sembrava notte fonda. Attraversarono uno accanto all’altra, Tiberio entrò dopo di lei nel bar dell’hotel; solo quando fu seduta con una cioccolata calda davanti, si avvicinò. «Se non ti offendi, queste sono per te». La ragazza lo fissò con un’espressione delusa. Di nuovo avvolse ciuffi di capelli tra le dita, ma i boccoli si raddrizzarono subito. «Mi è capitata una cosa assurda. Posso sedermi?», disse Tiberio, prendendo posto di fronte alla ragazza che cominciava a guardarlo con curiosità. Le raccontò che la sua nuova fidanzata non si era presentata all’appuntamento e lei, pensando che questa storia fosse più triste della sua, rise. Per farla ridere di nuovo, Tiberio raccontò ancora, inventando sempre meno e dimenticando Armando, di cui lei non gli parlò mai. Mai, in trentacinque anni. Da un po’ di tempo Tiberio non dorme bene. Forse è normale che sia così: già prima di compiere sessant’anni ha cominciato a sentire gli acciacchi dell’età. Il disturbo del sonno è uno di questi, ha pensato. Poi si è ricordato di un’immagine che qualche giorno fa lo aveva turbato, e che aveva subito scacciato dalla memoria, con irritazione, come si allontana una zanzara senza accorgersi che ha appena punto. Una notte, quell’immagine è tornata prepotente, nitida, come in una fotografia. L’aveva rivisto. Che giorno era? Possibile fosse il giorno dell’appuntamento? Seduto su una panchina del binario uno, con lo sguardo rivolto ai treni in arrivo, una mano sull’altra, e sotto un bastone da passeggio. Armando aspettava, accanto a lui un mazzo di rose rosse, tutti boccioli.

Welcome on board

di Gianna Lepri

“Ladies and gentlemen, Welcome on board”. Dopo le istruzioni ai passeggeri, Dalia si
dirigeva verso la cabina del comandante, sbirciando le poltrone in business. Marco era lí,
seduto, come d’accordo. Anche quella volta se lo sarebbe coccolato: flûtes di champagne,
Financial Times, copertina di cashmere per la notte, cuffiette con concerto numero 1 per
violino e orchestra di Tchaikovsy, giusto per ingannare il tempo. Ormai erano diventati una
coppia in volo. In coincidenza con i loro impegni, volavano insieme e una volta atterrati e
Marco sbrigati gli affari, lei lo aspettava per consumare la loro passione. Nel tempo, si
erano amati dovunque. In casette in affitto in riva agli oceani, in esagerati appartamenti al
42º piano su Central Park, in bungalows su spiagge bianchissime, in fragili barche su laghi
immobili, passando pomeriggi, notti o mattine a placare la loro fame vorace di sesso.
Quelle sfrenate galoppate finivano sempre in ristorantini seduti intorno ad un tavolo, trovati
per caso, chiedendo nei bar, negli alberghi o fermando gente per strada, talvolta affacciati
su piscine illuminate, seduti l’una di fronte all’altro, dove continuavano a sollecitare i loro
sensi con colori, profumi e sapori. E allora partivano buone mangiate. Come l’ultima volta
a Santiago del Cile, da Pedro, che aveva offerto alla coppia, tanto per cominciare, una
bottiglia ghiacciata di bianco della California, cosí per gradire. Poi si erano concessi
qualche ostrica, frutta, un dessert e molto champagne. Ostriche, che tanto piacevano a
Marco, che gli ricordavano quella “cosina” di Dalia. Due coppe di fragole e lamponi,
profumati come gli scuri capezzoli della sua donna, un piattino di pesche e albicocche, che
evocavano seni sodi e glutei vellutati e il colore roseo del pube di lei. E poi una banana,
per Dalia. Gli piaceva guardarla mangiarsela a morsi. La rappresentazione perfetta del suo
sesso, mentre lei se ne prende cura. E proprio per finire, benché già satolli, due scodelle
di mousse al cioccolato nero fondente, energetico, il più stimolante fra gli afrodisiaci,
eccitante più della caffeina, eccellente carburante per i loro incontri d’amore.
Perché , se avanzava del tempo, riprendevano le strette amorose, un po’ ovunque, dove
capitava. E via avanti in quel modo, ogni volta che si incontravano.
Era fatta così la loro storia. Molto amore, tanto sesso, ottimo cibo e grande passione.
Con poche certezze, tranne che si sarebbero aspettati sul prossimo volo.

La Flora. 9 marzo 2013

di Gianna Lepri

La vita al Piano non era cambiata poi tanto, prima con l’occupazione dei Tedeschi, poi con gli Americani venuti a liberarci. Per noi ragazzi erano entrambi novita’ ghiotte. I carri armati, le camionette, le pistole abbandonate dai soldati sui sedili, che noi spesso si rubava, e allora si’ la faccenda si faceva pericolosa, e poi la cioccolata, le prime sigarette che andavamo a fumare giu’ al Campino, passandocele in cerchio, e continuando a tirare, nonostante il forte senso di nausea. Per noi ragazzi la guerra era guerra, che fosse contro i Tedeschi o contro gli Americani, si doveva essere pronti a rispondere al fuoco nemico. Lo Zulli, con la voce nasale e la lisca quando parlava, era il nostro capitano, auto proclamatosi in realtà’, ma noi lo si lasciava fare perche’ ci si divertiva a sentirlo parlare, quando impartiva gli ordini, con quella sua buffa parlata. Poi c”erano il galoppini. Il Cecchini, figliolo del fattore di Villa Pazzi, che ci riforniva di ciliegie rubate nel podere padronale, e il Necchi, ragazzo di bottega in un laboratorio di sacchetti di carta, che era addetto al rifornimento delle munizioni, fatte di sassi, nespole, ghiaino, limoni che sparavamo Durante fantomatiche incursioni fra i poderi delle ville e gli orti dei fattori.
Per noi ragazzi il mondo finiva li’, con quei giochi, il biliardo, al cui bordo si arrivava a fatica, la Casa del popolo, dove a turno si mesceva il vino ai compagni avventori.
Dall’altra parte, distanti, quasi in un altro pianeta, c’erano le ragazze. Anche loro dovevano avere i loro giochi, per quanto si potesse immaginare, ma piu’ che altro le si vedeva lavorare in gruppetti, chi sedute sugli scalini dell’uscio di casa, altre mezzo accovacciate li’ intorno su delle seggiolone di paglia, a sferruzzare, a fare l’uncinetto o a ricamare fazzoletti o federe per il futuro corredo, o su commissione di qualche signorona del posto. Erano rari i contatti, piu’ che altro ci si spiava fra i gruppi, e se non fosse stato per qualche cugina in comune che ogni tanto si infilava in mezzo a noi, si sarebbe detto che ci si ignorava.
I piu’ cresciuti del gruppo, gia’ con qualche esperienza fugace alle spalle, alludevano, con battute salaci e un po’ volgari, alle cose che facevano i ragazzi con le ragazze. Ma noi piu’ piccoli si capiva poco, non ci si badava poi tanto, sebbene qualche richiamo primordiale lo si avvertisse anche noi.
Fra le le piu’ civette che si facevano più Facilmente avvicinare c’era la Rosanna del Sarti, con quel nasino all’insu, che sembrava annusasse di continuo l aria calda dei Colli. E poi c’era la la Gina del Cappelli che si dava arie di gran bellezza, quando invece era una mingherlina, con un visetto smunto, che un pomeriggio s’era fatta baciare da Beppino, il piu’ sveglio del branco, ma quando aveva sentito in bocca quella cosa molliccia e umida, aveva cominciato a sputare per terra fino all’ora di cena.
E infine c’erano le ragazze grandi, quelle sui diciotto, vent’anni, che venivano su dal centro e che per noi ragazzi rimanevano un miraggio, da non osare neppure fissare troppo, tanto erano fini ed eleganti, a confronto con le misere vestaglie delle nostre mamme e delle zie, o delle ciabatte mezzo sfondate delle nostre nonne. Ma frà tutte la piu’ bella, la piu’ desiderabile, fresca, solare, inarrivabile era la Flora, l’unica del Piano, che s’era messa a fare la vita, a rallegrare, diciamo cosi’, il soggiorno degli alleati. Insieme alle ragazze di Porta Romana o delle Cascine, andavano a spassarsela alle feste che gli Americani organizzavano nei saloni delle ville nobili requisite. E noi ragazzi, giu’, nelle cantine, a finire gli avanzi prelibati dei piani nobili, le si sentiva ballare, ridere e cantare, soprattutto la Flora con quella vocina da soprano, che quasi faceva piangere quegli omoni gia’ mezzo ubriachi. Poi era tutto un fuggi fuggi. Chi si accoppiava sui larghi divani di broccato, coppie che salivano con passo maldestro e sbilenco verso le stanze padronali, o come la Flora che preferiva appartarsi all’aperto, dietro la limonaia, che si vedeva passare aggrappata a qualche tenente di turno mezzo barcollante.
Se la contendevano tutti la Flora, bella, dicevano, come la Gina Cavalieri, con quel caschetto di capelli neri ondulati, il collo lungo, le mani affusolate e quello sguardo languido e trasognato che tanto attraeva i soldati. E anche a lei piacevano tutti quei militari, soprattutto quando, finite le festè, si avviava verso casa, con le borse ripiene di meraviglie. Polli arrosti, tacchini ripieni, torte di mele, cioccolata, sigarette, profumi, tutta roba che in parte rivendeva al mercato nero, e in parte portava a casa per sfamare quegli sciagura ti della sua famiglia, col fratello Bruno piu’ dentro che fuori dal carcere, il babbo inabile al lavoro perche’ malato di tisi, e la povera mamma che sgobbava dall’alba all ‘Ospedale di Careggi a trasbordare i morti dalle barelle alle celle mortuarie.
E quel suo modo scanzonato, irriverente, tipico dei Fiorentini, di affrontare le miserie della sua vita difficile, con allegria e distacco, ce la rendevano ancora piu’ attraente, e piu’ volte noi ragazzi, ormai cresciuti, in eta’ adulta, c’eravamo ritrovati a ripensare alla Flora, a rivederla ancheggiare mezzo barcollante su quelle scarpe dal tacco troppo alto, con quei vestitini di mussola, un po’ scollati, che le segnavano il vitino di i vespa, e che si sollevavano ad ogni folata birichina di vento, e a farcela ancora desiderare, proprio come aveva fatto sognare gli alleati in quell’agosto del ’44.

Le amiche

di Gianna Lepri

” E non lamentarti poi se i ragazzi ti guardano e ti fischiano dietro se continui a metterti quelle camicette scollate e quelle gonne strette, che sembrano risucchiate da un imbuto!” Wanda alzo’ le spalle e continuo’ a ripassarsi il rossetto sulle labbra. Le era costato due settimane alla maglieria, e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo quando usciva con la Liliana e la Rosalba, cosi’ come alle calze di seta con la riga di dietro, e all’ultimo modello di scarpe che aveva comprato dal Cecchini con il tacco alto e sottile, scomodo, ma talmente belle.Le ragazze si erano conosciute alla maglieria, e da allora non si erano piu’ lasciate. Sempre insieme, dalla mattina fino alla sera , quando smontavano dal lavoro. Restavano un po’ la’ fuori dal laboratorio a chiacchierare con le altre, anche se non ci legavano troppo, pero’. E la domenica insieme alle Cascine a fermarsi a discorrere con i militari, sempre cordiali e gentili, pronti a offrire una bibita o una granita, dietro come cagnolini, pur di far chiasso assieme a quelle belle ragazze. Wanda era la piu’ bella delle tre, e per questo la piu’ corteggiata nelle loro uscite. Si diceva che il suo viso assomigliasse molto a quello della famosa attrice Alida Valli tanto che, più di una volta, era stata fermata, perchè’ scambiata per la famosa attrice. Ma lei, quasi inconsapevole della propria bellezza, per la semplicita’ della sua educazione, scrollava le spalle e negava, senza farsi troppi pensieri.La Wanda, la capobanda, senza la quale non si faceva niente, era seguita a ruota dalle altre due. Se c’era un albero della Cuccagna da vedere in qualche rione vicino, era la Wanda che decideva, cosi’ come se c’era da andare a ballare in qualche sagra di paese, o ad assistere ad una gara di pesca, giu’ al fiume.Erano sempre insieme, e se non fosse stato per la bellezza che le differenziava, le si sarebbero scambiate l’una per l’altra.La Rosalba non aveva nulla di che competere con le sue amiche. Tozza, un po’ grassoccia, con una risata sguaiata che tanto infastidiva la Wanda, che pero’ non era mai riuscita a correggergliela. Si intrometteva a casaccio nei discorsi, e non appena le riusciva parlava di se’, suscitando il fastidio e il disinteresse di tutti. Un po’ volgare, non nascondeva per nulla il suo interesse per i bei giovanotti che pero’, poco ricambiavano le sue attenzioni. Si sarebbero detti difetti incorreggibili, da cui allontanarsi, ma ormai la Wanda e la Liliana si erano abituate a lei, e avevano finito per apprezzare i pregi che anche lei possedeva.La spontaneità’, quel suo farsi in quattro per gli altri, la sincerità, il suo buon cuore, facevano si’ di volerle bene.La Liliana era diversa, riservata, silenziosa, parlava quando la Wanda le chiedeva qualcosa e il piu’ delle volte non aveva la risposta alle sue domande. Dava poca confidenza agli estranei, cui si dimostrava diffidente, e la gente si chiedeva come se la sarebbe cavata senza la Wanda accanto. Con i ragazzi era un vero disastro. Ritrosa, scontrosa, scappava se qualcuno le si avvicinava ed inoltre doveva combattere con la Rosalba, che le aizzava contro i maschi, e lei si ritrovava ancora una volta a chiedere l’intercessione della Wanda, che non mancava di intervenire, perche’ lei non sopportava che le sue amiche subissero alcun tipo di sopruso.

Il pensionato

di Gianna Lepri

” Corri Debbie, vieni a vedere il pellicano a spasso con il suo ganzo!” Era una scena irresistibile che le inquiline del condominio non si volevano proprio perdere. Ruth era una ragazzotta piuttosto bruttina, con un grosso collo simile ad un gozzo appoggiato su un ampio petto carenato che la facevano assomigliare al pennuto. Ma lei, a differenza delle altre, si era gia’ trovata il fidanzato da un bel pezzetto e loro invece dovevano accontentarsi di andare a ballare da sole al dancing e sperare che qualcuno le invitasse, e questo suscitava una certa invidia e non risparmiava delle cattiverie. Vivevano tutte a pigione nel condominio della Signirina Collins, che aveva la doppia mansione di padrona di casa e di sorvegliante, dandosi un gran daffare per mantenere una certa armonia fra le ragazze. Tenerne a freno otto non era certo un compito facile. Erano giovani donne, che arrivavano per lo piu’ dalla campagna in citta’ in cerca di lavoro. C’era chi lavorava come dattilografa nell’ufficio di contabilita’ Lorenz, un paio come operaie nella grande industria di automobili, chi come barista giu’ al drugstore, un altro paio era impiegato come sarte nella fabbrica di confezioni, c’era un’aiuto parrucchiera con l’intenzione di mettersi in proprio in futuro. Laurie, la piu’ carina, si era impiegata come indossatrice in un elegante negozio in citta’, la piu’ probabile a lasciare il condominio per un alloggio piu’ idoneo alla sua attività’ , magari piu’ vicino al centro. Erano tutti lavori modesti, umili, che permetteva loro si’ e no di mantenersi. Ma, data la loro giovane eta’, erano tutte piu’ o meno sulla ventina, il loro stato non le impensieriva piu’ di tanto, anzi, restava loro il tempo per scherzi, scaramucce, alleanze ora contro l’una , ora contro l’altra, per ritrovarsi pero’ alleate in caso qualcuna di loro fosse in difficolta’ . Come quando quella volta Catherine di punto in bianco fu mandata via dal suo datore di lavoro, ufficialmente perche’ non piu’ necessaria, ma in realta’ perche’ lei non aveva ceduto alle sue pressanti richieste fuori orario. Le ragazze fecero quadrato, addirittura con l’appoggio della Signorina Collins, e si fecero carico dell’amica, facendo fronte alle sue spese, e sparpagliandosi per la citta’, finche’ non le trovarono un nuovo lavoro come magliaia in un laboratorio. In casa Collins le regole erano precise. Per prima cosa pagare la pigione puntuali alla scadenza, poi in ordine venivano tutte le altre. Lavarsi, meglio senza scialacquare troppa acqua prima di presentarsi per la cena all’ora stabilita. La Signorina Collins non sopportava il ritardo. Fumare rigorosamente nel patio e mai nelle stanze, la terrorizzava la sola idea di un cerino acceso in salotto. Eventuali accompagnatori andavano velocemente salutati sulla porta di casa, non vedeva la necessita’ di farli entrare dentro. Biancheria, pulizia delle stanze, talvolta la preparazione di qualche pasto erano tutti a carico delle ragazze. Una vita piuttosto dura per loro, un po’ meno per la Signorina Collins, a parte la preoccupazione che alle ragazze non accadesse qualcosa di veramente serio. Una sera chiacchieravano in salotto burlandosi di Gina che da un po’ di tempo veniva corteggiata da uni spilungone perdigiorno, tutti cosi’ le toccavano, in attesa che ci fossero tutte per andare a cena. C’era sempre un po’ di trambusto a quell’ora, dopo una giornata faticosa, con i racconti del giorno, la fame spesso disattesa, visto i menu’ scarni della Signorina, i progetti che gia’ si preannunciavano per la domenica, misto a un po’ di apprensione per l’eventuale ritardo di qualcuna delle commensali, per non indispettire la padrona di casa. Via via arrivavano le ragazze, fresche di risciacquo, chiacchierone, affamate, e si avvicinavano al salotto, tutte intorno alla Signorina Collins che, come una chioccia, radunava i suoi pulcini, contandoli inconsapevolmente. Nastri, golfini, sottogonne, spille, sandali, tutto contribuiva alla confusione della serata. Tutte si controllavano, si squadravano, apprezzavano spensierate le loro tenute. Sembrava ci fossero tutte, visto il rumore che si sentiva, ma la Signorina Collins avvertiva una certa tensione: non vedeva Ruth. Attese impaziente, temporeggiando con le ragazze, all’inizio facendo finta di niente, poi senza piu’ controllare il suo disappunto, esplose nel bel mezzo della serata con delle esca ndescenze esagerate che ammutolirono le ragazze. Effettivamente, Ruth non c’era. Non era mai successo. Le ragazze cercarono di rabbonire la Signorina Collins, ma non sapevano neppure loro che cosa pensare. Di cenare non se ne parlava nemmeno. Bisognava trovare Ruth. All’inizio erano paralizzate, non sapevano proprio da che parte cominciare. Poi, un po’ alla volta, l’iniziativa prese il sopravvento. Telefonarono al suo posto di lavoro, poi al drugstore. Gina fu mandata dalla signora Drew per vedere se era la’, telefonarono al distributore per chiedere se l’avessero vista, passarono dai suoi amici Fleming, per fugare ogni dubbio. Ci sarebbero stati altri mille posti dove cercarla, ma dove poteva essere finita? Andavano e venivano dal condominio sotto una pioggia battente ora, e la disperazione cresceva a dismisura. Si ritrovarono grondanti, ansimanti sotto il patio, sbigottite, domandandosi cosa fare.
Poi, all’improvviso, qualcuna capto’ un urlo mezzo soffocato giungere da dietro alla rimessa. Corsero tutte insieme verso quel punto, non tanto lontano dal condominio. Gina indicava un punto nel terreno. Si intravedeva un fagotto che a fatica si vedeva, rantolando, chiedendo aiuto, annaspando col fango nella bocca, nel tentativo di rialzarsi da terra. Le ragazze le furono subito intorno, la circondarono, cercarono con difficolta’ di alzarla, la coprivano con i loro impermeabili, cercando di proteggerla dalla pioggia. Era Ruth. Anche se si faceva fatica a riconoscerla. Le labbra spaccate grondavano sangue, l’occhio semichiuso, gia’ tumefatto, sporgeva dall’arcata, i capelli impiastricciati di sangue erano appiccicati alla faccia, il sangue colava dal naso, che appariva spostato dal suo setto. Le ragazze attonite, dopo un primo momento di spavento, si animarono, cominciarono a darle i primi soccorsi. Fra tutte riuscirono a caricarsela sulle spalle, chi tenendo un braccio, chi una gamba. Nonostante i suoi forti lamenti, raggiunsero la casa. Riunirono le loro conoscenze di pronto soccorso, e un po’ alla meglio la rassettarono. Le disinfettarono le ferite, le ripulirono i capelli incrostati di sangue, le lavarono la faccia e un po’ alla volta apparve il viso irriconoscibile di Ruth. Nessuna di loro aveva il coraggio di parlare, quasi se la sentissero come erano andati i fatti. E infatti era andata proprio cosi’. Ruth si era accorta che non le venivano piu’ le sue cose, cosi’ di nascosto era andata dal dottor Morgan per fugare ogni dubbio. Era incinta. Di due mesi. E ora come faceva con Dylan? Come dirglielo? Quella sera lo aveva convinto di trovarsi giu’ da Macy’s al bowling. Con calma e risolutezza lo avrebbe affrontato, lo avrebbe convinto che la cosa migliore era tenerlo, che non potevano sprecare un’occasione del genere, che sembrava fosse capitata apposta per consolidare il loro amore. Non fece in tempo ad accennare alla cosa, che le arrivo’ subito un manrovescio sulla bocca, lasciandola del tutto sbigottita. Non l’aveva mai visto cosi’ nervoso, intrattabile. Adesso non assomigliava più’ al suo Dylan. L’afferro’ per la camicetta e la spinse a forza fuori dal locale, trascinandola lontano dal caos. Continuarono a discutere, lei ormai sempre piu’ flebilmente, lui sempre piu’ minaccioso e all’ ultima debole insistenza di lei, lui si senti’ montare il sangue alla testa e comincio’ a picchiarla di brutto, perdendo completamente il senno. L’avrebbe finita se un gruppo di ragazzi, richiamati dalle urla, non fosse intervenuto a bloccarlo. Lei dopo un po’ aveva arrancato trascinandosi fino a casa, ma si era accasciata perdendo i sensi, proprio li’ accanto.
Ruth piangeva disperata circondata dalle ragazze e dalla Signorina Collins, che a situazioni come quelle purtroppo non era nuova. Con il suo mestiere ne aveva gia’ viste tante. Passarono alcuni giorni, fintanto che Ruth non assunse un aspetto passabile. Di li’ a poco prese la decisione. Sarebbe tornata al paese, perche’ di rimanere in citta’ con il bambino, da sola, senza un marito, non se ne parlava neppure. Il pullman quella domenica mattina era circondato da un gruppetto di ragazze che, piangendo, abbracciavano e salutavano affettuosamente la loro compagna piu’ sfortunata.
Rattristate, amareggiate per aver perso in quel modo un’amica, anche se ogni tanto era stata il bersaglio dei loro lazzi, si riavviarono sconsolate verso casa, ognuna verso la propria camera. Ne rimaneva vuota solo una, ma ancora per poco. Di sicuro, di li’ a un po’, sarebbe arrivata ad occuparla una nuova giovane donna dalla campagna, in cerca di un nuovo lavoro.