Archivi autore: Paolo Gallina

Informazioni su Paolo Gallina

Nasce a Venezia in una casa di Rialto a metà degli anni cinquanta. Laureato in Lettere moderne nel 2005 con una tesi su Luigi Meneghello i suoi interessi sono la letteratura, il cinema, la fotografia, gli scacchi.

PROVE DI EDITING

L’appuntamento il racconto vincitore della 3. edizione (2014) del “Premio Giorgio Borgognini” è stato sottoposto a un intervento di editing da parte di Laura Lepri in occasione del suo intervento a chiusura della stagione 2013/14 del Laboratorio di scrittura. L’autrice del racconto, Carmen Donadio sulla scorta dei suggerimenti di Laura Lepri ha prodotto una nuova stesura del testo che qui sotto viene riprodotta.

L’appuntamento

di Carmen Donadio

Tiberio rientrava a casa in treno dopo l’ultimo esame all’università. Era quasi sera, la nebbia e l’oscurità avanzavano insieme, nascondendo poco a poco le rotaie, i campi e le strade. I lampioni non erano ancora accesi, e lui, con le gambe molli e la testa dolorante, cercava di distinguere le ombre e le luci di fuori, qualcosa che gli confermasse che era quasi arrivato. Non vedeva l’ora di stendersi sul letto per poter cedere alla stanchezza. Il treno si fermò appena prima di entrare in stazione; la voce del capotreno avvisò di un guasto a un convoglio merci poco più avanti. «Maledetto! Maledetto treno, riparti!», il ragazzo seduto di fronte a lui diede un pugno sul finestrino dimenandosi sul sedile, accanto aveva delle rose rosse avvolte nel cellophane, un piccolo mazzo composto per lo più da boccioli. «Muoviti, dai!». «Non credo che ripartirà subito», sbuffò Tiberio innervosito. «Sono rovinato! Non mi aspetterà! Penserà che non sono venuto all’appuntamento», disse l’altro piegandosi in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Tiberio provò un misto di pena e fastidio per il tizio avvilito che gli si accasciava davanti, schizzava seduto dritto per ogni sussulto del treno e si contorceva le mani fissando le rose. Potevano avere la stessa età, pensò, anche se quello sembrava molto più stanco di lui. «Ma, se hai un appuntamento, vedrai che ti aspetterà», disse Tiberio. «Non è detto che mi aspetti», gli rispose, mordendosi le labbra e pizzicandole più volte tra indice e pollice. Poi tamburellò piano le dita sul vetro, lasciando un’impronta umida. Buio, nebbia e poche luci lontane; rivolti all’esterno, scrutavano il finestrino senza poter cogliere altro che il proprio riflesso. «Vedi, quattro anni anni fa, proprio oggi, ho incontrato per caso, qui in stazione, una ex compagna di scuola. Era tanto tempo che non ci vedevamo, forse dieci anni, e abbiamo passato una bellissima serata insieme». Si presentarono e Armando, rosicchiandosi le unghie, cominciò a raccontare della sua amica e dei loro ritrovi. Tiberio non aveva alcun interesse per quella storia, ma la circostanza non gli lasciava scampo. Venne a sapere così che dopo quell’incontro casuale, si erano salutati dandosi appuntamento all’anno successivo, sempre in stazione al binario uno, lo stesso giorno alla stessa ora. Per un paio d’anni, con sorpresa e divertimento di entrambi, il gioco aveva funzionato bene: abbracci, chiacchiere piene di domande e risate senza tregua, poi la cena e i saluti, prima di riprendere il treno, con la promessa di rivedersi ancora. Il terzo anno, l’appuntamento era andato benissimo: durante la cena, euforici entrambi, per aver finito gli studi lei e trovato lavoro lui, avevano brindato, incrociando i bicchieri e gli sguardi, e infine le gambe nel letto dell’hotel di fronte alla stazione. Persero il treno, e dovettero aspettare il primo della mattina successiva. Nemmeno in quell’ultimo anno avevano ceduto alla tentazione di telefonarsi o scriversi, perché era contro il regolamento che si erano dati. Armando però l’aveva pensata quasi ogni giorno e ormai era sicuro del suo amore per lei. Si sarebbe dichiarato quella sera, con i boccioli di rosa pronti a schiudersi. Tiberio si era pian piano appassionato al racconto e, quando Armando smise di parlare, si accorse di non sentire più la stanchezza che prima lo appiattiva sul sedile. Il treno ormai sembrava spento e Tiberio guardava Armando con la coda dell’occhio, cercando di non fissarlo troppo, perché si era chiuso in un silenzio rassegnato di braccia inermi lungo i fianchi con la testa abbassata che penzolava in avanti. Scattarono in piedi per un fischio assordante, il treno ripartì e in pochi minuti entrò in stazione. «Arrivederci», gridò Armando. Tiberio non fece in tempo a rispondergli. Riuscì a stento a vederlo correre sulla banchina e sparire giù per le scale, con le rose alte sopra la testa. Suggestionato dalla fretta di Armando e colto dall’ansia di non sapere cosa sarebbe successo, anche Tiberio si lanciò fuori dal treno e prese a inseguire l’ombra dell’altro, scendendo e poi salendo i gradini tre a tre. Arrivato in cima al binario numero uno, mise male il piede, perse l’equilibrio e picchiò le mani su un pilastro di cemento. Quando alzò la testa, lo vide. Armando stava appiccicato con la schiena su un lato dello stesso pilastro ammuffito, premendo sul petto il mazzo di rose. Si voltava con circospezione, come se non volesse farsi vedere. «Che fai?». «Levati, Tiberio, levati da qui!», sibilò con gli occhi spalancati. Tiberio, confuso, stava per andarsene, quando Armando lo colpì con i fiori, costringendolo ad appiattirsi di schiena sul pilastro insieme a lui: «Vedi quella ragazza? Quella seduta sulla panchina, con un libro in mano. È lei. Mi è venuto un colpo… che rischio… è una fortuna che non mi abbia visto. Come ha potuto farmi questo?». Nella confusione della stazione, Tiberio sentiva a tratti le parole di Armando, che era girato dall’altra parte, e vedeva solo il suo orecchio, rosso come i boccioli di rosa che gli sfioravano il mento, e la tempia coperta di ricci neri da cui colavano sottili gocce di sudore. Tiberio sporse la testa dal nascondiglio: a una ventina di metri, c’era una ragazza seduta su una panchina, leggeva un libro e dondolava una carrozzina. «Perché non la raggiungi?», chiese Tiberio. «Ma sei pazzo? La vedi, la carrozzina? Questa c’ha un figlio… febbraio, marzo, aprile, maggio…», Armando si mise a contare con le dita sulla bocca: «Se è nato in ottobre, adesso avrà tre mesi… No, non può essere figlio mio!». Armando puntò gli occhi in quelli di Tiberio, le iridi celesti erano quasi bianche, le pupille come due spilli, poi guardò il mazzo un po’ sgualcito, glielo passò con rabbia e si fissò le mani vuote: «Io me ne vado». Mentre Armando scendeva le scale e spariva dalla sua vista, Tiberio sentì il peso delle rose, e la stanchezza che aveva dimenticato tornò a riprendersi le gambe e la testa. Da quel punto protetto guardò di nuovo la ragazza: castana, capelli lunghi, pelle chiara. Lui cosa ci faceva ancora lì? Gettò quell’impiccio di fiori in un cestino vicino e cominciò a camminare verso l’uscita, ma, quando la vide agitare la mano in direzione di una donna che arrivava correndo, si fermò a qualche passo di distanza, dandole la schiena e fingendo di leggere il tabellone delle partenze. «Non è arrivato il tuo amico?», chiese la donna. «Non ancora, purtroppo», rispose la ragazza, con voce stanca. «E pensi di aspettarlo fino a quando? Ascolta la tua sorellona: che tipo può mai essere uno che non si presenta dopo quello che è successo l’anno scorso?». «Sì, forse hai ragione, ma aspetto ancora un po’». «Come vuoi, io vado a casa, è tardissimo. Grazie mille per avermi tenuto la piccolina, se non andavo in bagno adesso scoppiavo di pipì. In bocca al lupo! Domani ti chiamo». «Sì, ciao… crepi». Le due donne si salutarono con un lungo abbraccio, e Tiberio ne approfittò per muoversi e scegliere una posizione più sicura. Entrò nel bar e rimase a guardare dalla porta a vetri. La donna con la carrozzina si allontanò, mentre la ragazza, infilato il libro nella borsa, iniziò a passeggiare avanti e indietro, con il mento in su, squadrando tutti quelli che le venivano incontro. Dieci passi lungo il binario in una direzione, e venti nell’altra. Raccoglieva i capelli in una coda immaginaria, poi li lasciava cadere, ravvivandoli con una mano. Camminava piano, e quando un treno entrava in stazione si fermava a guardare con gli occhi stretti, avvolgendo sull’indice lunghe ciocche, morbide spirali che si scioglievano all’istante. Tiberio la osservava, chiedendosi se avrebbe dovuto correre a cercare Armando. Decise invece di aspettare, valutando la situazione che era cambiata in modo inaspettato sotto i suoi occhi, e cominciando a considerare quegli eventi non come casuali coincidenze, ma come segni del destino. Tiberio concluse che era una fortuna che lei non lo avesse visto e che Armando se ne fosse andato. La ragazza esaminò il grande orologio all’esterno della biglietteria, guardò ancora verso i binari e se ne andò. Tiberio corse al cestino, ripescò il mazzo e, mentre la seguiva, fu colto da una quasi totale assenza di suoni: niente più fischi di treni, nessun annuncio all’altoparlante, mute le voci concitate di chi stava partendo, e anche sulla strada le macchine in movimento non facevano alcun rumore. Per qualche secondo, sentì solo il battito del suo cuore e il leggero fruscio del cellophane che avvolgeva le rose. Finché non la raggiunse al semaforo e respirò. Fu investito dal fragore della strada e tornò il chiasso confuso della stazione alle sue spalle. La nebbia si era alzata e la sera sembrava notte fonda. Attraversarono uno accanto all’altra, Tiberio entrò dopo di lei nel bar dell’hotel; solo quando fu seduta con una cioccolata calda davanti, si avvicinò. «Se non ti offendi, queste sono per te». La ragazza lo fissò con un’espressione delusa. Di nuovo avvolse ciuffi di capelli tra le dita, ma i boccoli si raddrizzarono subito. «Mi è capitata una cosa assurda. Posso sedermi?», disse Tiberio, prendendo posto di fronte alla ragazza che cominciava a guardarlo con curiosità. Le raccontò che la sua nuova fidanzata non si era presentata all’appuntamento e lei, pensando che questa storia fosse più triste della sua, rise. Per farla ridere di nuovo, Tiberio raccontò ancora, inventando sempre meno e dimenticando Armando, di cui lei non gli parlò mai. Mai, in trentacinque anni. Da un po’ di tempo Tiberio non dorme bene. Forse è normale che sia così: già prima di compiere sessant’anni ha cominciato a sentire gli acciacchi dell’età. Il disturbo del sonno è uno di questi, ha pensato. Poi si è ricordato di un’immagine che qualche giorno fa lo aveva turbato, e che aveva subito scacciato dalla memoria, con irritazione, come si allontana una zanzara senza accorgersi che ha appena punto. Una notte, quell’immagine è tornata prepotente, nitida, come in una fotografia. L’aveva rivisto. Che giorno era? Possibile fosse il giorno dell’appuntamento? Seduto su una panchina del binario uno, con lo sguardo rivolto ai treni in arrivo, una mano sull’altra, e sotto un bastone da passeggio. Armando aspettava, accanto a lui un mazzo di rose rosse, tutti boccioli.

Il gomitolo rosso.

Tante facce nuove quest’oggi all’Hotel Bologna. Ha preso avvio il laboratorio di scrittura 2014-15. Quest’anno si celebra il ventennale di attività. La Presidente Annalisa Trabacchin ha illustrato il programma di quest’anno e poi si è passati all’autopresentazione prima dello staff e poi dei corsisti. Dopo ogni singola presentazione il corsista lanciava un gomitolo di filo rosso a quello successivo che a sua volta lo rilanciava e così via fino alla fine delle presentazioni. Il gomitolo si è così dipanato, in parte sfatto, ma il filo rosso non si è mai spezzato, realizzando una trama, un intreccio,  dei nodi. Efficace metafora di un testo. E’ stato un intreccio deciso dal caso, dal gesto o dallo slancio più o meno ampio. Sarà compito del laboratorio trasmettere le tecniche perché le trame e gli intrecci funzionino, perchè il testo senza perdere la propria creatività possa diventare narrazione. Buon lavoro a tutti!

PRESAGIO di Andrea Molesini

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Abbiamo letto Presagio, l’ultimo libro di Andrea Molesini. L’abbiamo letto tutto di un fiato, così come ci aveva consigliato l’autore in un’ afosa serata di giugno all’Amelia. L’aveva presentato in piedi, gesticolando con lo slancio che gli è proprio, facendo attenzione a non rivelare alcuni snodi della vicenda narrata. Però dei suoi personaggi, il commendator Spada e la marchesa Von Hayek, non è riuscito a tacere. Ci ha raccontato ancora una volta che lui per ogni suo personaggio redige una scheda dove registra tratti somatici e caratteriali, traumi infantili, gusti alimentari. Tutti elementi che poi magari non troveranno posto nel romanzo, ma che gli consentono di avere un controllo totale del personaggio e conoscere subito la sua reazione  di fronte all’evento più inaspettato. Ah, cosa pagheremmo  per avere tra le mani le schede del commendator e della marchesa, conoscere gli aspetti più intimi, più remoti della loro infanzia e adolescenza negli ultimi anni dell’ottocento! Sono due personaggi potenti che si muovono (e muovono) sulla scena con la precisione di un meccanismo perfetto e nella direzione inscritta nel loro destino. Ma ciò che funziona nel romanzo di Molesini è lo stile, la scrittura estremamente sorvegliata. L’autore utilizza un florilegio di similitudini e metafore che non appare mai come un gratuito esercizio stilistico, piuttosto fa trasparire una grande fiducia nella parola scritta. La convinzione che se usiamo le parole giuste, utilizziamo le figure più appropriate riusciamo a restituire al lettore un lacerto di verità. Questo è un romanzo breve, ha detto Molesini, è come una cascata (eccola l’ennesima similitudine del Nostro) e credo che intendesse dire che aveva l’irruenza travolgente di una massa d’acqua che cade dall’alto, il suo stordente fragore.  Presagio è ambientato a Venezia alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra, alla fine della Belle Époque e a noi sembra che Molesini non riesca pienamente a trasmettere l’atmosfera di quel momento. L’ inesorabile decadenza dell’hotel Excelsior, narrata nel romanzo, e l’abbandono frettoloso dei clienti,  non appaiono  indizi sufficienti a rappresentare i drammatici esiti dell’incipiente conflitto mondiale. Non sveleremo certo la vicenda narrata però a noi che l’abbiamo letta è tornato alla mente Il danno, un film di vent’anni fa di Louis Malle tratto dall’omonimo romanzo di Josephine Hart (1991).

Prometeo

Il combinato disposto di due articoli Dentro il metodo McEwan di Stefano Scalich su “Domenica” e Il nuotatore di Kafka non sapeva nuotare di Emanuele Trevi su “la Lettura” suggerisce alcune riflessioni sulla scrittura e sul suo stato di salute nell’incipiente stagione dei premi letterari.  Il “metodo McEwan” rassicura gli aspiranti scrittori della non indispensabilità di avere un metodo per scrivere. Lo scrittore inglese ritiene infatti che la scrittura sia “un processo di costruzione dal basso che non si sviluppa seguendo temi predeterminati” infatti il suo modus scribendi è rigorosamente non lineare; sul tavolo da lavoro di McEwan non ci sono né schemi né scalette. L’acclamato autore di Il giardino di cemento e Lettera a Berlino in un passo di Espiazione afferma che una storia “è un procedimento magico” oltre a dichiarare di apprezzare l’esitazione e le pause in fase creativa: non tanto perché tradiscano indecisione, semmai in quanto permettono alle cose di abbellirsi.E poi confessa che quando vede i suoi amici scrittori e chiacchiera di letteratura non parlano di tecnica, parlano delle cose che li appassionano. L’articolo di Trevi in recensione alla raccolta di saggi Il fuoco e il racconto di Giorgio Agamben esordisce tacciando d’infamia la degradazione che ha trasformato l’arte, la letteratura, la religione, la stessa filosofia in “spettacoli culturali” privi di ogni “efficacia storica”. E quel termine infamia lo preleva proprio da un saggio di Agamben: “Ma allora vorrei dare un consiglio agli editori e a coloro che si occupano di libri: smettetela di guardare alle infami, sì, infami classifiche dei libri più venduti e – si presume – più letti e provate a costruire invece nella vostra mente una classifica dei libri che esigono di essere letti. Solo un’editoria fondata su questa classifica mentale potrebbe far uscire il libro dalla crisi che – a quanto sento dire e ripetere – sta attraversando”. Scrive Trevi: “Viviamo in un’epoca in cui non si chiede nient’altro all’artista che di dar forma agli effimeri spettacoli del successo, della moda, del romanzo ben fatto.  E nelle scuole di scrittura si impartiscono gli stolidi precetti dello storytelling con il loro sistematico obliterare le imprevedibili esigenze del singolo in nome di un “efficacia” che nei migliore dei casi potrà avere solo delle conseguenze commerciali. Per sua natura, infatti, il mercato non può essere altro che una macchina fondata sull’impersonale. A dispetto dell’apparente varietà delle loro trame e dei loro personaggi, in effetti è innegabile la sensazione che tutti i libri di successo si assomiglino profondamente. Considerato come artigiano del plot questo tipo oggi dominante di scrittore deve procedere ricorrendo sempre di più all’elemento impersonale della creazione”.

Noi confidiamo nell’apparizione di un novello Scrittore/Prometeo che sappia ritrovare il “fuoco” che il “racconto” ha perduto.

CARMEN CON L’APPUNTAMENTO VINCE IL BORGOGNINI

Carmen Donadio vincitrice della III edizione del Premio "Giorgio Borgognini" con il racconto L'appuntamento viene premiata da Annalisa Trabacchin Presidente del Circolo Walter Tobagi

Carmen Donadio vincitrice della III edizione del Premio “Giorgio Borgognini” con il racconto L’appuntamento viene premiata da Annalisa Trabacchin Presidente del Circolo Walter Tobagi

 

L’ appuntamento

di Carmen Donadio

Trentacinque anni fa, Tiberio rientrava a casa in treno dopo l’ultimo esame all’università. Era quasi sera, la nebbia e l’oscurità avanzavano insieme, nascondendo poco a poco le rotaie, i campi e le strade. I lampioni non erano ancora accesi, e lui, con la testa dolorante e le gambe molli per la tensione accumulata, cercava di distinguere le ombre e le luci di fuori, qualcosa che gli confermasse che era quasi arrivato. Non vedeva l’ora di stendersi sul letto per poter cedere del tutto alla stanchezza.

Il treno si fermò appena prima di entrare in stazione; la voce del capotreno avvisò di un guasto ad un convoglio merci poco più avanti.

“Maledetto! Maledetto treno, riparti!” –  il ragazzo seduto di fronte a lui diede un pugno sul finestrino dimenandosi sul sedile, accanto aveva delle rose rosse avvolte nel cellophane, un piccolo mazzo composto per lo più da boccioli.

“Muoviti, dai!”

“Non credo che ripartirà subito” –  sbuffò Tiberio innervosito.

“Sono rovinato! Non mi aspetterà! Penserà che non sono venuto all’appuntamento. Maledetto treno!” –  disse l’altro battendo tutti e due i pugni sul finestrino, e piegandosi in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani.

Tiberio provò un misto di pena e fastidio per il tizio avvilito che gli si accasciava davanti, schizzava seduto dritto per ogni sussulto del treno e si contorceva le mani fissando le rose. Potevano avere la stessa età, pensò, anche se quello sembrava molto più stanco di lui.

“Ma, se hai un appuntamento, vedrai che ti aspetterà” –  provò a dire.

“Non è detto che mi aspetti, il nostro è un appuntamento speciale” –  gli rispose, mordendosi le labbra e pizzicandole più volte tra indice e pollice. Poi tamburellò piano le dita sul vetro, lasciando un’impronta umida.

Fuori, buio, nebbia e poche luci lontane; rivolti all’esterno, scrutavano il finestrino senza poter cogliere altro che il proprio riflesso.

“Vedi, quattro anni fa, proprio oggi, ho incontrato per caso, qui in stazione, una mia amica, ex compagna di scuola. Era tanto tempo che non ci vedevamo, forse dieci anni, e abbiamo passato una splendida serata insieme”.

Si presentarono e Armando, sempre guardando fuori e rosicchiandosi le unghie, cominciò a raccontare della sua amica e dei loro ritrovi. Tiberio non era per niente interessato alla storia, ma la circostanza non gli lasciava scampo.

Venne a sapere così che dopo quell’incontro casuale, si erano salutati dandosi appuntamento all’anno successivo, sempre in stazione al binario uno, lo stesso giorno alla stessa ora. Per un paio d’anni, con sorpresa e divertimento di entrambi, il gioco era funzionato bene: abbracci, chiacchiere piene di domande e risate senza tregua, poi la cena e i saluti, prima di riprendere il treno, con la promessa di rivedersi ancora. Il terzo anno, l’appuntamento era andato benissimo: durante la cena, euforici entrambi, per aver finito gli studi lei, e trovato lavoro lui, avevano brindato, incrociando i bicchieri e gli sguardi, e infine le gambe nel letto dell’hotel di fronte alla stazione. Persero il treno, e dovettero aspettare il primo della mattina successiva.

Nemmeno in quell’ultimo anno si erano telefonati, perché era contro il regolamento. Armando però l’aveva pensata quasi ogni giorno e ormai era sicuro del suo amore per lei. Si sarebbe dichiarato quella sera, con i boccioli di rosa pronti a schiudersi.

Tiberio si era tanto appassionato al racconto da non sentire più la stanchezza che poco prima lo appiattiva sul sedile, e, quando quello smise di parlare, era completamente sveglio e un po’ in apprensione per lui. Per sfogare l’agitazione crescente, cominciò a oscillare le gambe e sbattere le ginocchia tra loro, creando un po’ di movimento in un treno che non sembrava solo fermo, ma ormai del tutto spento. Intanto lo guardava con la coda dell’occhio, cercando di non fissarlo troppo, perché si era chiuso in un silenzio rassegnato di braccia inermi lungo i fianchi con la testa abbassata che penzolava in avanti.

Scattarono in piedi per un fischio assordante, il treno ripartì e in pochi minuti entrò in stazione.

“Arrivederci, Tiberio”.

Non fece in tempo a rispondergli, ché era già sceso. Riuscì a stento a vederlo correre sulla banchina e sparire giù per le scale, con le rose alte sopra la testa.

Suggestionato dalla fretta di Armando e colto dall’ansia di non sapere cosa sarebbe successo, anche Tiberio si lanciò fuori dal treno. Fece le rampe di scale saltando i gradini tre a tre, e mentre correva, immaginava che qualche secondo prima anche Armando aveva fatto la stessa cosa.

Quasi s’ammazzò: arrivato in cima al binario numero uno, mise male il piede, perse l’equilibrio e picchiò le mani su un pilastro di cemento.

Quando alzò la testa, lo vide. Armando stava appiccicato con la schiena su un altro lato dello stesso pilastro ammuffito, premendo sul petto il mazzo di rose e voltandosi a scatti, attento a non farsi vedere.

“Che fai?”

“Levati, Tiberio, levati da qui!” – sibilò con la bocca tirata e gli occhi spalancati.

Confuso, stava per andarsene, quando Armando lo colpì con i fiori, costringendolo ad appiattirsi di schiena sul pilastro insieme a lui: “Vedi quella ragazza? Quella seduta sulla panchina, con un libro in mano. È lei. Mi è venuto un colpo… che rischio… è una fortuna che non mi abbia visto. Come ha potuto farmi questo?”

Nella confusione della stazione, Tiberio sentiva a tratti le parole di Armando, che era girato dall’altra parte, e vedeva solo il suo orecchio, rosso come i boccioli di rosa che gli sfioravano il mento, e la tempia coperta di ricci neri da cui colavano sottili gocce di sudore.

Sporse anche lui la testa dal nascondiglio: a una ventina di metri, c’era una ragazza seduta su una panchina, leggeva un libro e dondolava una carrozzina. Ogni tanto alzava lo sguardo, cercando tra la gente, e Tiberio, per timore che lo vedesse, si ritraeva.

“Perché non la raggiungi?”

“Ma sei pazzo? La vedi, la carrozzina? Questa c’ha un figlio… febbraio, marzo, aprile, maggio…”, si mise a contare con le dita sulla bocca: “Se è nato in ottobre, adesso avrà tre mesi… No, non può essere figlio mio!”

Armando puntò gli occhi in quelli di Tiberio, le iridi celesti erano quasi bianche, le pupille come due spilli, poi guardò il mazzo un po’ sgualcito, glielo passò con rabbia e si fissò le mani vuote: “Io me ne vado”.

Mentre Armando scendeva le scale, Tiberio sentì il peso delle rose, e la stanchezza che aveva dimenticato tornò a riprendersi le gambe e la testa.

Da quel punto protetto guardò di nuovo la ragazza: castana, capelli lunghi, pelle chiara. Lui cosa ci faceva ancora lì?

Gettò quell’impiccio di fiori in un cestino vicino e cominciò a camminare verso l’uscita, ma, quando la vide agitare la mano in direzione di una donna che arrivava correndo, si fermò a qualche passo di distanza, dandole la schiena e fingendo di leggere il tabellone delle partenze.

“Non è arrivato il tuo amico?”

“Non ancora, purtroppo”.

“E pensi di aspettarlo fino a quando? Ascolta la tua sorellona: che tipo può mai essere uno che non si presenta dopo quello che è successo l’anno scorso?”

“Sì, forse hai ragione, ma aspetto ancora un po’”.

“Come vuoi, io vado a casa, è tardissimo. Grazie mille per avermi tenuto la piccolina, se non andavo in bagno adesso scoppiavo di pipì. In bocca al lupo! Domani ti chiamo”.

“Sì, ciao… crepi”.

Le due donne si salutarono con un lungo abbraccio, e Tiberio ne approfittò per muoversi e scegliere una posizione più sicura. Entrò nel bar e rimase a guardare dalla porta a vetri.

La donna con la carrozzina si allontanò, mentre la ragazza, infilato il libro nella borsa, iniziò a passeggiare avanti e indietro, con il mento in su, squadrando tutti quelli che le venivano incontro. Dieci passi lungo il binario in una direzione, e venti nell’altra. Raccoglieva i capelli in una coda immaginaria, poi li lasciava cadere, ravvivandoli con una mano. Camminava piano, e quando un treno entrava in stazione si fermava a guardare con gli occhi stretti, avvolgendo sull’indice lunghe ciocche, morbide spirali che si scioglievano all’istante.

Tiberio la osservava, chiedendosi se avrebbe dovuto correre a cercare Armando. Decise invece di aspettare, valutando la situazione che era cambiata in modo inaspettato sotto i suoi occhi, e concludendo infine che era una fortuna che lei non lo avesse visto e che Armando se ne fosse andato.

La ragazza esaminò il grande orologio all’esterno della biglietteria, guardò ancora verso i binari e se ne andò.

Tiberio corse al cestino, ripescò il mazzo e, mentre la seguiva in apnea, fu colto da una quasi totale assenza di suoni: niente più fischi di treni, nessun annuncio all’altoparlante, mute le voci concitate di chi stava partendo, e, anche sulla strada, le macchine in movimento facevano lo stesso rumore di quelle parcheggiate. Per qualche secondo, sentì solo il battito del suo cuore e il leggero fruscio del cellophane che avvolgeva le rose. Finché non la raggiunse al semaforo e respirò.

Fu investito dal fragore della strada e tornò il chiasso confuso della stazione alle sue spalle. La nebbia si era alzata e la sera sembrava notte fonda.

Attraversarono uno accanto all’altra, Tiberio entrò dopo di lei nel bar dell’hotel; solo quando fu seduta con una cioccolata calda davanti, si avvicinò.

“Se non ti offendi, queste sono per te”.

La sua espressione triste accennò un sorriso. Di nuovo avvolse ciuffi di capelli tra le dita, ma i boccoli si raddrizzarono subito. Con un gesto della mano lo invitò a sedersi.

Tiberio le raccontò che la sua nuova fidanzata non si era presentata all’appuntamento e lei, forse pensando che questa storia fosse più triste della sua, rise. Per farla ridere di nuovo, Tiberio raccontò ancora, inventando sempre meno e dimenticando Armando, di cui lei non gli parlò mai.

Mai, in trentacinque anni.

Da un po’ di tempo Tiberio non dorme bene. Forse è normale che sia così: già prima di compiere sessant’anni ha cominciato a sentire gli acciacchi dell’età. Il disturbo del sonno è uno di questi, ha pensato. Poi si è ricordato di un’immagine che qualche giorno fa lo aveva turbato, e che aveva subito scacciato dalla memoria, con irritazione, come si allontana una zanzara senza accorgersi che ha appena punto.

Una notte, quell’immagine è tornata prepotentemente a inquietarlo, nitida, come in una fotografia. L’aveva rivisto. Che giorno era? Possibile fosse il giorno dell’appuntamento? Seduto su una panchina del binario uno, con lo sguardo rivolto ai treni in arrivo, una mano sull’altra, e sotto un bastone da passeggio. Armando aspettava, accanto a lui un mazzo di rose rosse, tutti boccioli.

 

 

 

Si fa presto a criticare…

C’è su “la Lettura” di oggi, domenica 16 febbraio, una pagina che parla di critica. Luca Ronconi e Franco Cordelli intervengono occupandosi soprattutto di critica teatrale, ma le loro riflessioni possono benissimo essere estese alla critica letteraria o meglio alla critica tout court. L’affermarsi di Internet e dei blog ha reso meno esclusiva la figura del critico estendendo questa pratica a una platea di recensori più o meno improvvisati. È sicuramente aumentata la democrazia mentre viene meno l’autorevolezza. I blog consentono a tutti di trasmettere la propria opinione, il proprio giudizio, manifestare il proprio gusto. Con Internet il critico è stato esautorato dalla sua funzione di mediatore tra autore e lettore. Si avverte nel mare magnum della rete la dispersione di un giudizio di valore attendibile, la perdita di un ancoraggio sicuro e riconosciuto. I lettori stessi si fanno critici, si affaccia sulla scena (come scrive Cordelli) una figura nuova: non necessariamente il tecnico, o un tipo particolarmente colto, bensì l’appassionato puro, colui che scrive e dice ciò che pensa. La mancanza di autorevolezza della critica comporta però anche una perdita di qualità nel giudizio e nell’analisi. La critica è una forma specifica di attività letteraria che consiste nell’esprimere un giudizio su un’opera in base a un’analisi del testo. Con lo sviluppo delle comunicazioni di massa e soprattutto con la “democratizzazione” della rete tale definizione ha perso rigore e la critica è diventata quasi esclusivamente una pratica di orientamento del gusto nei lettori. Lo stesso scambio di opinioni all’interno dei gruppi di lettura diventa occasione  di orientamento dei gusti letterari in un contesto paritario dove non è necessaria la figura-guida dotata di solida formazione letteraria. Alla fine di marzo avremo ospite del laboratorio Andrea Cortellessa, autorevole critico letterario, sarà interessante conoscere la sua opinione sulla funzione della critica nell’era di internet.

Riflessioni di un libraio nell’era digitale

KE  READER   di Alessandro Girtanner

Odio l’e-reader. Sono fermamente convinto che l’e-reader sarà l’oggetto che determinerà il crollo del sistema economico mondiale. Esagero? Seguitemi. Innanzitutto l’e-reader è un oggetto orrendo, una cornicetta piatta e piccola. Provate a pensarlo senza il sistema operativo. Comprereste un oggetto così? Ma al di là della bruttura, è socialmente pericoloso. Continuiamo a immaginare. Tutti comprano e-book, quindi fine delle librerie, migliaia di librai disoccupati. A casa non avrete più libri di carta, tutta la vostra biblioteca personale sarà in quell’oggetto nero. Che ve ne fate della libreria vuota? Dunque non comprerete più librerie, e l’Ikea fallirà. Eh già, perché è noto che l’Ikea basa il 95% del suo fatturato sulle Billy, il resto del fatturato sono le polpette svedesi. Dunque l’Ikea fallisce, nel mondo ci saranno centinaia di migliaia di disoccupati, che non compreranno più niente, nemmeno quello che voi (fruitori di e-book) vendete. Crisi totale, fine del sistema. Contraddittorio: gli e-book costano poco! Già, ma fermiamoci a riflettere. Costano tantissimo in relazione ai libri di carta. Un e-book è un file, il costo è quello di un dattilografo per un paio d’ore di lavoro; il file, rivenduto migliaia di volte, è senza costi, ma voi lo pagate un’infinità rispetto al suo valore. Il libro invece ha un costo reale, tangibile, dato dalla carta, la stampa, le foto, la distribuzione, la vendita. Il libro è unico, è vostro, il file no! Se scaricate file musicali da iTunes, non comprate il file, ma solo il diritto di ascolto. Non è vostro! Non lo potete regalare, né prestare. Voi direte: l’elettronica, il digitale, ci hanno semplificato la vita! Siamo sicuri che invece non ci abbiano “banalizzato” i piaceri della vita? Mi spiego. Ascolto un brano che mi piace. Lo voglio acquistare (acquistare i diritti di ascolto). Uso Shazam per sapere cos’è, vado su iTunes, digito il nome dell’autore, pago, scarico nel mio iPod. Perfetto. Ora ho un nuovo file musicale tra i centomila che ho scaricato. Poi, forse, lo ascolterò. Pensiamo a quando la musica era analogica. Mi piaceva un brano. Prendevo il tram e andavo nel mio negozio di dischi preferito, e intanto mi godevo il viaggio. Arrivato al negozio mi perdevo a “sfogliare” i dischi negli espositori, facevo quattro chiacchere con altri clienti, oppure mi innamoravo della ragazza alla cassa. Pagavo un oggetto reale, che tra l’altro era anche un bell’oggetto, grande, colorato, con i testi delle canzoni e le foto degli artisti. A casa mettevo il vinile sul giradischi, mi accomodavo sul divano e mi godevo un’ora di musica, e invitavo gli amici ad ascoltarlo. Adesso trovatemi voi un negozio di dischi. Anche la questione del costo, il basso costo, l’economicità è falsa e ridicola. Dobbiamo imparare a pagare le cose per ciò che valgono, solo così le cose “avranno un valore reale”. Se non possiamo permettercele, ne compreremo meno, faremo musina, sennò saremo complici dello sfruttamento delle persone. Sapete perché pagate cosi poco i vostri e-book? Perché Amazon sfrutta la disperazione della gente. In Germania Amazon è sotto accusa per aver istituito dei veri e propri lager, sfruttando disperati spagnoli, italiani e dell’Europa dell’est, pagandoli pochissimo, senza diritti sindacali, facendoli vivere in baracche fatiscenti, guardati a vista da vigilantes reclutati tra i neonazisti. Bello vero? Così potete comprare i vostri e-book, la vostra musica, a prezzi stracciati. Una buona notizia. In Inghilterra il mercato dei vinili sta ripartendo.