Perché scrivi?

C’è sempre una domanda che prima o poi si pone agli scrittori “Perché scrivi?” Ce lo ricordava Tiziana l’altra sera al Laboratorio. Ha citato Pamuk, che ne La valigia di mio padre elenca una serie di buoni motivi per scrivere, per concludere che lui, Pamuk, scrive per essere felice. È una domanda che disorienta sempre lo scrittore interrogato. Come non fosse pronto a rispondere, come lo scrivere non fosse frutto di una scelta consapevole, ma piuttosto di una inclinazione esistenziale. Nel suo blog Vibrisse Mozzi pubblica post su “Dieci buone ragioni per smettere di scrivere” e su “Dieci buone ragioni per continuare a scrivere” e fioccano i commenti, i decaloghi si ampliano. Forse è proprio l’uso di quella parola “ragioni” che determina una rigidità, un blocco quando si è chiamati a rispondere alla fatidica domanda.  Scrive Vargas Llosa nel suo Lettere a un aspirante romanziere “la critica è un esercizio della ragione e dell’intelligenza, (…) nella creazione letteraria, oltre a questi fattori, intervengono, e a volte in modo determinante, l’intuizione, la sensibilità, la capacità di decifrare, perfino il caso (…) Perciò nessuno può insegnare a un altro a creare, ma tutt’al più può insegnarli a leggere e scrivere”.

Però c’è un accanimento nei confronti degli scrittori (sia professionisti che dilettanti) nel porre la domanda “Perché scrivi?” che non mi pare venga esercitato nei confronti di “creatori” in altre discipline. Non ho mai sentito chiedere a un artista, perché dipingi, o a un musicista perché fai musica, o a un cineasta perché fai film o un fotografo perché fai fotografie. A ognuna di queste discipline è riconosciuta una funzione, così come è riconosciuto il ruolo a chi le esercita. Quando si parla di scrittura a me piace citare Meneghello che ne L’esperienza e la scrittura” scrive:

L’esperienza è un flusso, attorno a noi tutto scorre, siamo immersi in un fiume, c’è il fluire del tempo, il fluire della vita biologica e quello della vita sociale, la società cambia attorno a noi, con ritmi che a volte paiono perfino più rapidi dei ritmi biologici… Scrivendo si sottrae qualcosa a questo flusso, è come attingere acqua da un fiume con una scodella, e sembra di aver preservato almeno qualcosa del “senso” delle nostre esperienze.

La scrittura con funzione conservativa, di custodia dell’esperienza che si somma a quell’altra grande funzione che sempre Meneghello ci indica  nella prefazione a I piccoli maestri:

“Scrivere è una funzione del capire”.

3 pensieri su “Perché scrivi?

  1. anna

    Forse sarebbe ora di far sentire la voce di chi scrive sul perché, invece, si può anche decidere di non rispondere a questa domanda immensa e banale al contempo… scappo, ma il tuo spunto di riflessione, Paolo, è decisamente interessante..

  2. Emanuele

    La domanda è in effetti poco interessante, specie se ripetuta così frequentemente. Mi pare più stimolante, forse perché è quella che mi passa spesso per la testa, chiedere: “Ma come fai a scrivere?” Visto che la trovo attività (lo scrivere) tremendamente complicata, se si vuol far sì che chi ci legge non abbia l’impressione di sprecare il suo tempo.

  3. Paolo Gallina Autore articolo

    Sulla questione del perché si scrive l’anno scorso avevo pubblicato un post. Me ne sono ricordato, sono andato a “pescarlo” nei mie caotici archivi e lo ripropongo con qualche piccola variante.
    Enrique Vila-Matas (uno dei più importanti scrittori spagnoli viventi) in un lungo articolo del duemila cerca di spiegare i motivi del perché si scrive. È un pezzo interessante e anche molto divertente, permeato di autoironia a cominciare dal titolo: Scrivere è smettere di essere scrittore. Eccone uno stralcio:
    “…ignoravo che scrivere, nella maggior parte dei casi, significa entrare a far parte di una famiglia di talpe che vivono in gallerie interiori lavorando giorno e notte.(…) Ma scrivere vale la pena, non conosco niente di più bello dell’attività di scrivere, anche se, nel contempo, devo pagare un certo tributo per tale piacere. Perché è un piacere e, come sosteneva Danilo Kis, elevatezza: «La letteratura è elevatezza. Non ispirazione, vi prego. Elevatezza. Epifania joyciana. E’ l’istante in cui si ha l’impressione che, in tutta la nullità dell’uomo e della vita, vi siano, in ogni modo, alcuni momenti privilegiati, di cui bisogna approfittare. E’ un dono del Dio o del diavolo, poco importa, ma un dono supremo».(…) Uno scrittore deve puntare al massimo e sapere che ciò che importa non è la fama o essere scrittore, ma scrivere, incatenarsi per la vita a un nobile ma implacabile padrone, un padrone che non fa concessioni e che conduce gli scrittori veri sulla strada dell’amarezza, come si rileva assai bene in frasi come questa di Marguerite Duras: «Scrivere significa tentare di sapere che cosa scriveremmo se scrivessimo». (…) Progettare di scrivere significa addentrarsi in uno spazio pericoloso, perché si entra in un tunnel oscuro e senza fine, perché non si perviene mai a una piena soddisfazione, non si arriva mai a scrivere l’opera perfetta o geniale, e ciò provoca il più grande dei dolori. (…) scrivere è ciò che si scriverebbe se si scrivesse. E’ qualcosa di terribile, ma che raccomando a tutti, perché scrivere è correggere la vita- anche se correggiamo una sola virgola al giorno-, è l’unica cosa che ci protegge dalle ferite insensate e dai colpi assurdi che ci infligge l’orrenda vita reale”.

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