Cosa (non) è oggi letteratura?

Mercoledì scorso abbiamo  posto a Fulvio Ervas, autore di  Se ti abbraccio non aver paura  una domanda.Se il successo del suo libro fosse dovuto alla forza della storia raccontata o alla potenza della pagina scritta. Insomma gli abbiamo posto una questione da niente: trovare una risposta alla domanda “cosa fa di un testo, un testo letterario?” Interrogativo che è figlio di un’altra domanda ancora più sconcertante: “che cos’è la letteratura?”

La questione posta era evidentemente provocatoria e nasceva dall’aver riscontrato nel libro di Ervas un deficit di letterarietà.  Un’impressione che non si è saputo enucleare e definire ma che si manifestava nell’evidente contrasto tra la commovente vicenda umana di Andrea e Franco e il resoconto pressoché diaristico del loro viaggio attraverso le Americhe.

Il nostro chiedersi e chiedere “che cos’è la letteratura?” nasceva anche dal resoconto di un dibattito tra Russo, Cortellessa e Ostuni dove la loro acribia di critici letterari arrivava a stabilire una distinzione tra narrativa e letteratura affermando che: “la narrativa tratta di cose che sono sotto gli occhi di tutti, mentre la letteratura traduce lo spirito del tempo in un pensiero inaspettato, parla dell’oscuro, di ciò che non è ancora stato visto.”

La domenica di Pasqua “la Repubblica” ci è venuta in soccorso con due articoli di Simonetta Fiori e Massimo Recalcati. Quello di Simonetta Fiori Viaggio  al termine del pudore cercando il nuovo bestseller (bel titolo che parafrasa Céline), lo trovi  qui, cita Se ti abbraccio non aver paura e afferma che: “Il dolore è di gran moda. Le lacrime fanno vendere. E gli editori le inseguono con la stessa febbre dei cercatori d’oro”.

Massimo Recalcati nel suo articolo Una questione privata? (bel titolo che parafrasa Fenoglio), lo trovi  qui, ci mette un catenaccio Ecco perché il dolore, anche se ha grande successo in libreria, non si può chiamare letteratura.

Il problema è il rapporto tra vissuto e parola, c’è una tendenza diffusa a ridurre l’esercizio della scrittura a diario privato. Recalcati ci ricorda che “il trasferimento della vita sulla pagina scritta non possa avvenire se non attraverso l’imbuto stretto del linguaggio e che un’opera letteraria esige la mediazione calcolata del linguaggio, l’esistenza di una forma, un’attività di sublimazione che sia in grado di trasformare la dimensione informe del vissuto nel miracolo di un’opera”

17 pensieri su “Cosa (non) è oggi letteratura?

    1. Paolo Gallina Autore articolo

      A me pare che già definire un testo come un testo letterario implichi un giudizio di qualità. Ovvero diciamo questo libro è letteratura, quest’altro no. Poi, se vogliamo esercitarci criticamente, possiamo giudicare se un testo è buona o cattiva letteratura. Insomma mi sembra che la questione sia un po’ più complessa di come la poni tu, Giulio. Se adottassimo la tua proposta che qualsiasi cosa scritta è letteratura vorrebbe dire che sarebbe letteratura anche l’ultimo libro della Littizzetto, il manuale della mia Canon 7D, la lista della spesa (le liste poi in questo periodo vanno per la maggiore!). Potresti obiettare che il libro della Littizzetto appartiene alla letteratura d’evasione, il libretto della Canon alla letteratura manualistica, la lista della spesa alla letteratura utilitaristica. Ma la questione scadrebbe a una querelle nominalistica e perderemmo di vista il senso autentico della domanda: “cos’è la letteratura?” che è quello di interrogarsi sulla sua funzione. E il titolo che ho dato al mio post non a caso si interroga su cosa è OGGI la letteratura, come individuare gli elementi con i quali si distingue ciò che ha un valore letterario e ciò che non lo ha. Dice Vincenzo Ostuni, editor di Ponte alle Grazie: “l’unico valido strumento di distinzione è quello che mette a confronto vari prodotti letterari; se si sono letti Tolstoj e i grandi classici è senz’altro più facile riconoscere ciò che NON è letteratura”.

      1. stefano borgarelli

        Scambio davvero stimolante! Mi sento più dalla parte di Paolo: da quando ero allievo del poco noto ai più (extra moenia accademiche), e mai abbastanza rimpianto Francesco Orlando, sono attento al problema di stabilire quale sia lo specifico d’un testo empiricamente sentito come ‘letterario’. Nel suo fondamentale ‘Per una teoria freudiana della letteratura’ (Einaudi), appunto Orlando prendeva a modello la struttura del motto di spirito (witz), analizzata da Freud nel celebre libro tutto dedicato al tema ‘(Il motto di spirito e le sue relazioni con l’inconscio’, Boringhieri – ora anche in e-book), per formulare la sua teoria. Qualsiasi testo letterario (in prosa o in versi), sarebbe (e funzionerebbe come) una formazione di compromesso: tra un contenuto ‘represso’ nel c.detto ‘inconscio’, tendente ad ‘affiorare’ alla coscienza, e un’istanza repressiva, derivante appunto dalla coscienza stessa – a sua volta connessa alle istanze del c.detto ‘Super-io’ e al ‘principio di realtà’. Mentre sogno, sintomo e lapsus sono formazioni di compromesso (tra le due istanze richiamate sopra), non comunicative, ma solamente significative, il motto differisce dalle altre tre formazioni semiotiche, perché deve comunicare, per produrre piacere in chi l’ascolti. Assumendo la c.detta funzione-destinatario, il lettore d’un testo ‘letterario’ entrerebbe nella stessa ‘dinamica’ d’un ascoltatore d’un motto, che ne tragga piacere a condizione d’accettare un certo uso della razionalità, a cavallo di due ‘logiche’ in compromesso tra loro: una derivante dal sistema conscio, l’altra da quello inconscio. Questo il riferimento (l’omaggio) minimo, necessario, a una teoria per me originale e largamente convincente, non priva tuttavia d’implicazioni problematiche. Ritengo infatti che Orlando abbia sempre saggiato la consistenza del suo modello su un corpus di classici della letteratura, consolidati da una qualche tradizione (comunque occidentale). Ma credo si debba tener conto che il canone letterario è variabile – in funzione del gusto dei lettori, dei giudizi delle comunità dei critici, dell’egemonìa di questo o quel gruppo di potere accademico, culturale, editoriale ecc. La ‘fortuna’ – nel senso tecnico del termine – d’un testo ‘letterario’ (d’un autore) appunto varia, contribuendo con ciò a ridefinire lo stesso canone, in tempi più o meno lunghi. Mi chiedo allora quanto il problema del funzionamento d’un testo, ‘sentito’ come letterario, possa prescindere dalla geometria variabile, diciamo così, della base empirica (quindi del corpus dei ‘classici’), su cui una teoria letteraria (compresa quella orlandiana) dev’essere elevata. Si può presumere che un certo corpus di classici resti stabile nel tempo, ma il punto è se la loro ‘letterarietà’ sia definita una volta per tutte dalla corrispondenza extra-temporale, strutturale, del loro funzionamento (presso q.siasi lettore di q.siasi epoca), col modello (nel nostro caso desunto dal witz), oppure se tale ‘letterarietà’ non resti del tutto empirica, e in definitiva indefinibile, perché intrecciata in modo inestricabile con la ‘fortuna’ dei testi – instabile, nonostante la cristallizzazione (ingannevole) prodotta dalla longevità dei classici ‘letterari’.
        Segnalo a margine un bell’articolo di Emanuele Zinato (anche lui formatosi all’insegnamento di Orlando), nel sito di ScuolaTwain, dove l’autore ragiona a rovescio, sulla ‘letterarietà’ trasferita fuori dalla ‘letteratura’, quale sintomo, oggi, della necessità di quest’ultima:
        http://www.scuolatwain.it/blog/le-ragioni-attuali-dellesperienza-letteraria/

  1. ledi sgorlon

    Secondo me, qualsiasi emozione o sentimento privati, diventano letteratura
    quando l’autore attraverso la potenza del linguaggio, o la forza di un’immagine riesce
    a trasformarli in qualcosa di universale, qualcosa che come essere umano
    mi tocca e mi riguarda

    1. Paolo Gallina Autore articolo

      @Ledi il tuo commento è perfettamente in sintonia con quanto scrive Recalcati nel suo articolo: “quando il diario privato di un racconto biografico assume la dignità di un’opera (letteraria) ? A mio giudizio solo quando la scrittura ha saputo trasfigurare il vissuto passionale più privato in una forma che attribuisce a quella esperienza singolare un valore universale”

  2. Marina

    Penso che la differenza tra lo “scrivere letterario” a proposito del dolore, tanto per restare in tema, ed una sua “descrizione fedele, partecipata ma senza pretese” sta in quella fortunata fusione di genio e tecnica che permette ad uno scrittore di parlare di dolore e riuscire a farlo, magistralmente, senza necessariamente averne avuto esperienza, suscitando emozione anche nel lettore che , di quel dolore, non ha fatto conoscenza.

    Perché la letteratura del dolore gode, non solo di maggiori chances commerciali ma anche di maggiore dignità rispetto al suo contrario? Perché il dolore e’ percepito come “profondo ” e il riso “superficiale”?

    1. Valentina D.

      “Nella mia onesta ebetudine”…per dirla alla A. Zanzotto, direi che si tratta di Medicina narrativa. Non ho letto il libro, ma credo si tratti di questo. Capisco che al giorno d’oggi si percepisca una ” disumanizzazione della medicina”, e la necessità di una relazione partecipata. Talvolta sono i sanitari a scrivere, a volte gli utenti. Raramente “i laici”. In questo ambito la parola diventa mezzo di cura.

      1. Paolo Gallina Autore articolo

        …il 25 aprile andando per i cippi
        dei caduti, come per le stazioni di un calvario,
        sopraffatto tremavo, e poi dalla piccola compagnia mi defilavo
        come in una profonda definitiva pioggia.
        Il vostro perire – nel sacro della primavera –
        mi sembrava la radice stessa di ogni sacro.
        Anche se per voi, certo, non lo era.
        Anche se eravate scomparsi una sera
        presi da batticuore, ormai rimossi da impatti col vivente
        proprio per l’essere stati fino-al-picco del vivere.
        Io no. Scrivevo in quegli anni entro gli annali della mia morte,
        deliravo sul verde delle piante, sulla beltà,
        senza perdonarmi ignoravo, quasi, ogni assenza
        e svanimento con me, nella mia omertà.
        Ora mi pare di vedere, con onesta ebetudine
        e insipidire dei sentimenti, il tradirsi
        di tutto in molte friabili forme
        senza arrivare a un niente veramente accettabile,
        reo totale come si vorrebbe;
        e l’adombrarsi di ora in ora
        mi pare una fatata legge, con una sua eleganza,
        e il silenzio non dista dal grido –
        piamente connessi chi sa dove
        entro la tresca fuggente di questi prati e forre…

        Ti ringrazio per la citazione zanzottiana pubblicando un estratto di
        Verso il 25 aprile
        dove si trova ” l’onesta ebetudine ” da te citata.

        Non ho capito se intendessi dire che il libro di Ervas fosse un esempio di “narrativa terapeutica”. A me non pare (non so neanche se esista una narrativa terapeutica) credo che Ervas abbia raccontato una relazione padre/figlio dove il padre ha cercato (e a mio giudizio c’è riuscito) di rompere con gli atteggiamenti stereotipati nei confronti della malattia. Ripudiare la dia-gnosi ed esperire la com-prensione.

  3. Giulio Mozzi

    Paolo, decidere che cosa appartiene e che cosa non appartiene a un insieme (l’insieme delle opere letterarie) per mezzo di un giudizio di qualità è – mi pare – un ottimo modo per non saper mai che cosa appartiene e che cosa non appartiene a quell’insieme; ovvero, per non saper mai che cosa determina l’appartenenza all’insieme.
    Tra l’altro – pensaci – questo è un gesto tipico del pensiero classista/razzista. Il classista/razzista dice che per appartenere all’insieme “persone umane” non basta essere animali bipedi, mammiferi, scarsamente villosi, il cui cucciolo è dotato di venti denti decidui mentre l’adulto ne ha trentadue, eccetera: perché, se accettassimo questa definizione, dovremmo considerare “persona umana” tanto Leonardo Da Vinci quanto il primo cretino che passa.

    Mettiamo che i miei libri di racconti siano letteratura. Lo è anche questo commento qui che sto scrivendo ora? Se sì, perché? Se no, perché?
    La mia corrispondenza è letteratura?
    Ecc.

    Pensiamo al povero Salgari. Non c’è dubbio, mi pare, che dal mucchio dei suoi circa ottanta romanzi se ne distinguano tre: “I pirati della Malesia”, “I misteri della jungla nera” e “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”. Perché si distinguono? Perché, per giudizio intersoggettivo (più i primi due che il terzo, tuttavia) sono decisamente più belli degli altri. E dunque: dovremmo decidere che quei tre romanzi sono letteratura, e gli altri no?
    A me pare poco pratico, visto che i romanzi di Salgari, in realtà, si assomigliano tantissimo tra loro; e che la differenza tra quelli “belli” e quelli che non sono giudicati tali è… qualcosa di indefinibile! Ovvero qualcosa che non può essere descritto precisamente, ovvero qualcosa che non può essere usato per distinguere una cosa da un’altra (a es. per decidere se questa cosa è o non è letteratura).

    In sintesi e per finire: mischiare distinzione e valutazione a me sembra poco pratico.

    1. Paolo Gallina

      Innanzitutto penso che l’intera opera di Salgari appartenga alla letteratura, in quanto si tratta di un classico nel suo genere (avventura). Poi, come ho già scritto, posso esercitarmi sulla critica delle sue singole opere, estrapolando dal corpus quei romanzi che più si distinguono per stile, lingua e forma.
      Sì, quando ho scritto che definire un testo: letterario, implica un giudizio di qualità, sono stato un po’ approssimativo e giustamente tu hai colto l’incongruenza. Intendevo che un testo definito letterario è un testo che manifesta un’intenzione letteraria, dove si rintraccia uno stile, una scelta linguistica, oltre che un progetto. È per questo che io giudico i tuoi libri di racconti: letteratura, ma non questo tuo commento che ha un precipuo scopo argomentativo e una diversa tecnica espressiva. Così come per la tua corrispondenza. Ho sempre l’impressione che la butti giù un po’ troppo semplicisticamente. Oltretutto respingo l’accusa di classista/razzista alla mia tesi, perché con “qualità” intendevo “caratteristiche” di un testo (progetto, stile, forma, lingua) che lo fanno appartenere o meno all’insieme dei “testi letterari”. Così come, per esempio la caratteristica della “parola” fa appartenere all’insieme delle “persone umane” e non solo essere animali bipedi, mammiferi, scarsamente villosi ecc.
      Certamente più problematico, e nello stesso tempo più seducente, mi sembra l’approccio di Borgarelli che, dopo il doveroso tributo a Orlando, introduce una serie di considerazioni sul Canone letterario occidentale.
      Per semplicità e sintesi copio/incollo la definizione di canone letterario da Wikipedia:
      “La categoria dei “testi letterari”, (viene) utilizzata per indicare quegli enunciati nei quali domina esplicitamente l’intenzione “letteraria” – e non “tecnica”, o “giuridica” o “filosofica” (…)
      dalla immensa produzione dei “testi letterari” può essere estrapolata un’ulteriore categoria di “testi” che si distinguono per alcune proprietà, di forma e di sostanza, ai quali la tradizione ha assegnato il nome di “opere letterarie” – diverse dalla “saggistica”, o dalla “pubblicistica”
      Su questo link si ha accesso all’intera voce:
      http://it.wikipedia.org/wiki/Canone_dei_classici_della_letteratura

  4. Giulio Mozzi

    Paolo, scrivi:

    “Intendevo che un testo definito letterario è un testo che manifesta un’intenzione letteraria, dove si rintraccia uno stile, una scelta linguistica, oltre che un progetto”.

    – “intenzione letteraria”. No. Per una serie di ragioni. 1. Il concetto di “letteratura” è settecentesco. Attribuire a un testo, che so, quattrocentesco o grecoantico una “intenzione letteraria” è un anacronismo. 2. A chi appartiene l’ “intenzione letteraria”? Al testo o all’autore? Se appartiene all’autore, abbiamo come minimo il problema dei testi anonimi (non possiamo interrogare l’autore, o rintracciare testimonianze, circa le intenzioni). Se l’intenzione appartiene al testo, bisogna capire come fa una cosa ad avere delle intenzioni. 3. Questo potrebbe forse essere considerato un dato non qualitativo. Tuttavia i successivi mi hanno l’aria di essere qualitativi. 4. Che ce ne facciamo delle opere di Machiavelli, Guicciardini e Galilei? I discorsi di Barak Obama sono “letteratura” o no? Ecc.

    – “stile”. 1. Se per “stile” intendi qualcosa come un insieme di scelte tra loro coerenti, a prescindere dalla bellezza del testo, l’argomento è apparentemente non qualitativo. Tuttavia lo è: assisto continuamente a discussioni del tipo “Questo qui ci ha uno stile”, “No, non ce l’ha”. 2. Come si decide se c’è o non c’è stile? Lasciamo fare al tempo e al consenso intersoggettivo? O ci affidiamo a dei professionisti?

    – “scelta linguistica”. Stesso discorso che per lo stile.

    – “un progetto”. Immagino che tu non intenda la semplice esistenza di un progetto, ma la corrispondenza del testo a un progetto. Ma allora valgono le stesse esitazioni che per le intenzioni: come facciamo a chiedere agli autori di testi anonimi qual era il loro progetto? O riteniamo che il progetto sia immanente al testo? Ecc.

    Ho l’impressione di non essere io quello che la butta giù un po’ troppo semplicisticamente. 😉

  5. Giulio Mozzi

    E, cambiando argomento ma non tanto, paolo, tu scrivi:

    “È per questo che io giudico i tuoi libri di racconti: letteratura, ma non questo tuo commento che ha un precipuo scopo argomentativo e una diversa tecnica espressiva”.

    Vi sarebbero dunque “tecniche espressive” che danno luogo a letteratura, e altre che non danno luogo a letteratura?
    Il “Principe” di Machiavelli, il “Dialogo dei massimi sistemi” di Galilei, il “De officiis” di Cicerone, il “De rerum natura” di Lucrezio hanno indubbiamente precipui scopi argomentativi. Per non parlare dei dialoghi di Platone, di quelli del Tasso, eccetera eccetera. Tutta roba che è oggi considerata letteratura (o: anche letteratura).

    Questo mio commento non è “letteratura”? Bizzarra idea. Secondo me è stilisticamente e linguisticamente coerente con tutto il complesso della mia scrittura in rete (che non è monocorde, ma usa diversi generi letterari: in questo caso quello della “controversia”; e compie operazioni prettamente retoriche: in questo caso lavoro su quella che Cicerone chiamava – nelle sue opere sulla retorica – la “definitio”); ha un progetto alle spalle (e te lo dico io), ha un’intenzione letteraria (e te lo dico io). E’ dunque, secondo la tua definizione, letteratura. (Lo è anche, ma per tutt’altre ragioni – “è qualcosa di scritto” – secondo la mia: ma secondo la mia definizione è senz’ombra di dubbio letteratura, per evidenza materiale; secondo la tua non è certo che lo sia: ne parlano due persone, tu e io, e già c’è disaccordo).

    😉

    1. Paolo Gallina Autore articolo

      Magari avrò peccato di impertinenza nell’affermare che qualche volta la butti giù un po’ troppo semplicisticamente, ma aprire la tenzone con “Propongo di decidere che ogni “qualcosa di scritto” è letteratura. Dopodiché, si tratta di valutare: se sia letteratura bella o no, interessante o no, eccetera.” mi pare faccia il paio con quell’altra tua asserzione che “un testo è poesia quando si va a capo prima che finisca la riga”, focalizzando l’attenzione sul verso (io ci aggiungerei sillaba, accento, rima, struttura delle forme metriche. E non sollevare l’obiezione del verso libero, perché esso non è affatto privo di qualche forma di regolarità.)
      Comunque mi piace averti sollecitato ad abbandonare (almeno per il tempo necessario a redigere i due commenti) una certa tendenza al laconismo che ho spesso riscontrato nelle tue controversie (affezionato alla Letteratura italiana del Seicento?) Parrebbe di sì, vista la citazione di Galilei. E’ proprio nel Dialogo dei massimi sistemi che Galilei dà avvio a un nuovo genere letterario: la prosa scientifica. E’ vero che avevamo tacitamente concordato di espungere dalla nostra discussione ogni giudizio di qualità (e di far discendere da quel giudizio l’appartenenza o meno di un testo al corpus della Letteratura), ma se alla mia obiezione che il tuo commento non è letteratura “perché ha un precipuo scopo argomentativo” tu mi contrapponi la prosa scientifica di Galilei, potrai comprendere che sono rimasto sconcertato. Non solo la prosa scientifica di Galilei è letteratura, ma è un classico della letteratura, il tuo commento al mio post, non ancora (quantomeno non fa ancora parte del canone letterario.) Tra l’altro non mi hai risposto sul manuale della mia Canon 7D che secondo la tua definizione, in quanto “è qualcosa di scritto”, sarebbe letteratura. Genere: prosa scientifica?
      Non metto assolutamente in dubbio che ogni tuo commento sia “stilisticamente e linguisticamente coerente con tutto il complesso della (tua) scrittura in rete” non fosse altro perché io ho lo stesso tuo atteggiamento. Ti riporto un estratto della mail che ho inviato recentemente a un’amica/collega del Tobagi:
      “…dovresti leggere qualche mio sms a mio figlio, fatto di frasi subordinate, incisi e punteggiatura sorvegliatissima. Mi viene naturale trattare uno scritto, anche il più banale, come fosse un testo letterario. Credo resti sempre aperto il dibattito su: “Cosa fa di un testo un testo letterario” (come vedi è una fissa!) e, nell’attesa di avere la risposta convincente, mi esercito tutte le volte che scrivo (capisci Giulio, perché mi prende lo stomaco quando leggo i commenti di Davide sul tuo blog). Credo che uno scrittore resti tale in ogni momento della giornata e anche una piccola nota, un appunto, se possibile, lo scriva come fosse un aforisma o un emistichio.”
      Almeno su questo siamo d’accordo. 😉

  6. stefano borgarelli

    “Non solo la prosa scientifica di Galilei è letteratura, ma è un classico della letteratura, il tuo commento al mio post, non ancora (quantomeno non fa ancora parte del canone letterario.)” – scrive Paolo. Vedo con piacere che torna in ballo la questione del canone, intrecciata con quella della ‘letterarietà’, messa in cima a tutta questa vivace discussione: “[…] cosa fa di un testo, un testo letterario?”. Ma una riflessione sul canone letterario, potrebbe servire a rispondere? Forse sì, nel caso si consideri questa domanda equivalente a quest’altra: cos’è la letteratura? Riferendosi al canone, e restringendo fortemente la prima formulazione di Mozzi (me ne ha ricordata un’altra, di Dino Formaggio, all’esordio d’un suo libro, ‘Arte’, che cito sperando non mi tradisca la memoria: “Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”), si potrebbe rispondere che la letteratura sia: tutto ciò che sta in un canone ‘letterario’ dato, fino alla sua (eventuale, possibile, improbabile ecc.) esclusione. Ma la domanda posta da Paolo all’inizio mi sembra diversa, perché tende a cercare la definizione d’un quid extra-temporale, in direzione filosofica (estetica), fuori dagli storici, variabili recinti dei giudizi di valore (magari non crociani – v. ‘poesia/non-poesia’ – ma davvero tramontati?), che portano a includere o meno i testi nei canoni. Ecco perché sopra avevo ripreso molto sommariamente la teoria orlandiana, che si muove sul terreno della logica, della struttura comunicativa d’un testo (prima che della storia, cioè della concreta produzione letteraria), tuttavia esemplificata su basi empiriche, variabili, se pur solidissime (i classici’). Mi pare insomma che il serpente si morda la coda: la questione teoretica inizialmente posta, sembra non poter prescindere da esemplificazioni, riferimenti, allusioni, citazioni ecc. su basi empiriche – da entrambe le parti, come si vede nell’agguerrita, stimolante discussione – in cui il testo ‘letterario’ è già un ‘interpretato’ (che un dato testo rientri o meno in un canone, non mi sembra faccia differenza: la cosa non mette in questione l’esistenza d’un qualche canone, di ‘auctores’ indiscussi in quanto tali ecc.). Sarà forse utile allora, nell’eventuale prosieguo di questa bella discussione, tener conto delle problematizzazioni avanzate sul canone letterario da un critico come Luperini, che da tempo se ne occupa, e lo ha considerato sui due versanti distinti delle opere e dei lettori, per es. qui:
    http://luperini.palumboeditore.it:8080/luperini_site/articoli_web/canone_novecento/view;
    oppure ha stigmatizzato due atteggiamenti sbagliati, opposti e complementari, nella discussione sul canone – di grande rilevanza per l’insegnamento della letteratura – per es. qui:
    http://luperini.palumbomultimedia.com/?cmd=articoli&id=28

    1. Paolo Gallina Autore articolo

      “L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte.” Bravissimo, tranne che per l’articolo la citazione è pressoché perfetta! Il fatto è che la formulazione mozziana propone: “ogni qualcosa di scritto è letteratura” ed è difficile assimilarla alla definizione di Formaggio. Innanzitutto perché la letteratura ha un unico mezzo: la scrittura; mentre l’arte ne ha molteplici: la pittura, la scultura, il video-tape, la performance, ecc. Anzi potremmo considerare la letteratura una specifica forma artistica, se considerassimo l’arte nella sua accezione più ampia e non limitandosi alle arti visive. Se facessimo una “condensazione” tra le due enunciazioni: “La letteratura è tutto ciò che gli uomini chiamano letteratura” torneremo alla questione del canone, perché letteratura non sarebbe qualsiasi cosa scritta, bensì ciò che gli uomini (lettori, critici, gruppi accademici, editoriali) chiamerebbero letteratura.
      Ho letto gli interessanti articoli di Luperini, ma vista la tarda ora ci ritornerò. 🙂

  7. Giulio Mozzi

    Paolo, se il tuo manuale è “qualcosa di scritto”, allora sarà letteratura. La mia definizione lo comprende senz’altro. Questo è il suo primo pregio, per l’appunto: che permette di stabilire con certezza che cosa è e che cosa non è letteratura; mentre ogni definizione su base qualitativa non consente altrettanta certezza. Il suo secondo pregio è che permette di distinguere lo stabilire che cosa una cosa è dal giudizio di valore su quella cosa.

    La definizione di Formaggio è tutt’altra cosa (e serve a tutt’altri scopi). Ha alcune caratteristiche interessanti e problematiche. Ad esempio: le pitture della grotta di Lascaux sono arte? Risposta: sì, oggi le consideriamo arte. Ovvero: la definizione di Formaggio può essere riscritta così: “E’ arte in un determinato momento ciò che in quel determinato momento è considerato arte”.
    Dubito, a es., che gli estensori del “Genesi” considerassero “letteratura” ciò che stavano facendo. Né, credo, la considerava tale, che so, Agostino da Ippona. Se non altro perché il concetto di “letteratura” che noi usiamo è, ripeto, d’epoca illuministica. Prima, semplicemente, non c’era.
    Analogamente, qualcosa può smettere di essere arte a un certo punto: quando nessuno la considera più tale.

    E’ ovvio che la definizione di Formaggio non implica, peraltro, alcun giudizio di qualità. Però ci si può domandare: quali sono i testimoni ai quali chiediamo di dirci che cosa (in quel momento) considerano arte? E’ arte ciò che intersoggettivamente in un certo momento il ceto degli addetti ai lavori considera arte? Eccetera. E ci ritroviamo di nuovo con in mano una definizione che ha molte utilità, ma non quella di stabilire con certezza che cosa è arte e che cosa no. (L’oggetto che ho appena prodotto, e che nessuno ha ancora visto – e che quindi nessuno tranne me ha ancora considerato arte – è arte?).

    Ciò che è considerato arte per molto tempo, e al quale per molto tempo è stato riconosciuto un giudizio intersoggettivo di bellezza, diventa opera canonica.

    Vi ricordo che l’opera letteraria più venduta e apprezzata nell’Ottocento fu “I lombardi alla prima crociata”, di Tommaso Grossi. Un poema di tale bellezza che Manzoni (vabbè, era amico suo) gli mise un marchettone dentro “I promessi sposi”, citandone un verso.

    I miei commenti a questo post non sono ancora nel canone letterario? Rispondo: ma quanto siete impazienti! Date loro un po’ di tempo. In fin dei conti un testo importante come il “De vulgari eloquentia” di Dante Alighieri aspettò 225 anni (almeno) prima di essere incluso nel canone.

  8. Paolo Gallina Autore articolo

    Abbiamo capito che per te, Giulio, “qualcosa di scritto” e “letteratura” hanno il medesimo significato. Nobilitiamo la tua proposta affermando che ci troviamo di fronte a una dittologia omosemantica. 🙂
    Non ti resta che convincermi, quando consulto il manuale della mia Canon 7D (ormai diventato un paradigma, come la casalinga di Voghera), di avere tra le mani un prezioso incunabolo.
    Fuor di celia, tornerei sulla questione dell’intenzione letteraria, che tu hai drasticamente bocciata in un tuo commento precedente. Scrivevi:
    “intenzione letteraria”. No. Per una serie di ragioni. 1. Il concetto di “letteratura” è settecentesco. Attribuire a un testo, che so, quattrocentesco o grecoantico una “intenzione letteraria” è un anacronismo. 2. A chi appartiene l’ “intenzione letteraria”? Al testo o all’autore? Se appartiene all’autore, abbiamo come minimo il problema dei testi anonimi (non possiamo interrogare l’autore, o rintracciare testimonianze, circa le intenzioni). Se l’intenzione appartiene al testo, bisogna capire come fa una cosa ad avere delle intenzioni.
    Come ho già ricordato, il titolo che ho dato al mio post si interroga su cosa è OGGI la letteratura e quindi penso che oggi potremmo cercare una risposta a tale quesito, dando per assodato il concetto di letteratura affermatosi nel settecento. Concetto inservibile per l’esegesi di un testo quattrocentesco o grecoantico, ma ancora valido per i libri che affollano gli scaffali delle librerie.
    Nel caso del manuale non possiamo certo chiedere all’autore (anonimo) se nella stesura avesse intenzioni letterarie, ma è il testo stesso che ci comunica le proprie finalità. Consegnarci delle istruzioni d’uso (questa è l’intenzione), fare di noi dei provetti fotografi (questo è il progetto), utilizzare una lingua settoriale (questa è la lingua) usare una prosa paratattica e semplice (questo è lo stile). Insomma non rintraccio intenzioni letterarie.
    Tranquillo Giulio, attendiamo pazienti il tuo ingresso nel canone letterario (Questo è il giardino) 😉

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