La giusta distanza

Domenica sul “Corriere del Veneto” ho letto un racconto di Giovanni Montanaro: L’ottavo ragazzo. Scrittore veneziano trentenne, pubblica il suo primo romanzo a ventiquattro anni e nel 2012 finisce nella cinquina finalista del Premio Campiello.  Un enfant prodige che però, in questo racconto, non mi è apparso molto convincente. È la storia di un giorno d’estate a Venezia in cui sette quindicenni decidono di giocare a calcio in campiello, coinvolgendo un riluttante compagno nell’agone, al fine di stabilire la parità tra le squadre: quattro contro quattro. Credo ci fosse l’intenzione di raccontare l’atmosfera, o meglio il clima di una Venezia estiva ai margini dei giri turistici, popolata soltanto da qualche sparuto gruppo di ragazzini. Si dà il caso che il sottoscritto (che ha suppergiù il doppio di anni dell’autore) durante l’adolescenza quel clima estivo l’abbia respirato, ma non l’abbia affatto ritrovato nel racconto di Montanaro. Mi è sembrato scritto in una afosa domenica d’estate con un lessico trascurato, un sospetto solecismo già alle prime righe, un personaggio tutt’altro che memorabile e perfino un titolo filologicamente impreciso. Perché L’ottavo ragazzo allude all’ottavo giocatore che avrebbe dovuto completare i ranghi. E tutti i ragazzi (che hanno giocato a calcio in modo improvvisato nei campi veneziani) sanno che la non rara situazione di trovarsi in numero dispari ha sempre espresso la seguente constatazione: “Ne manca un omo” (italice: Ci manca un uomo). E questo, Montanaro dimostra di saperlo bene, perché a un certo punto scrive: “Ma noi eravamo felici. Eravamo pari. Nessun uomo in più…” e allora perché non titolarlo L’ottavo uomo? Ma è proprio l’atmosfera la grande assente di questo racconto, fin dalle prime righe. Il caldo a Venezia è afoso, opprimente per l’umidità, non torrido (come scrive Montanaro), perché l’aggettivo sta a indicare un caldo secco. E quella “temperatura percepita”, a cui si accenna nel racconto, ricorda i servizi giornalistici sul caldo in città. Per non citare l’iperbole “la temperatura percepita (…) è quella che sente un anemico di Reykjavik in mezzo al Sahara mentre cucina costicine”, davvero puerile. Nella chiusura del racconto si avverte una certa nostalgia dell’autore “Ieri sono passato davanti al Conservatorio, e non c’era nessuno che giocava a calcio”, ma evidentemente il dolore del ritorno non è stato così acuto, perché la distanza del ricordo non era sufficiente. Montanaro ci racconta una domenica d’agosto di quindici anni fa, dove i ragazzi vestivano le maglie di Baggio e Veron. La mia nostalgia si colloca molto all’indietro, a metà degli anni ’60 quando i ragazzi vestivano le maglie di Rivera e Mazzola; l’ottavo uomo non lo strappavamo dal computer. Oggi continuo a sentirla l’atmosfera di quegli anni e di quei giochi, perché da tutto questo ho stabilito: la giusta distanza.

 

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