Il Capoufficio (6)

Arrivò il Capoufficio. Il raggio di sole, che si era insinuato tra le venetian blind, fece brillare i galloni che portava sulle spalle. Questo perché era molto alto, altrimenti il raggio si sarebbe proiettato sopra la testa. Oltre, sul muro sporco. Con indifferenza chiese una cosa all’Impiegato. “Niente, mi dispiace signor Curtiz, non riesco a trovarla” disse con voce flebile l’Impiegato, dopo averla a lungo cercata. Curtiz guardò di sbieco il gallone sinistro spento, corrugò la fronte, portò il labbro inferiore su quello superiore (l’Impiegato notò che proprio sotto la bocca, dove iniziava il mento il gigante si era tagliato radendosi) fece una smorfia, che gli tenne impegnata tutta la faccia, e se ne andò. Questa volta il sole mancò il bersaglio, un raggio cadde sul muro, non senza illuminare, per un attimo, un piccolo ragno che arrancava sull’intonaco crepato. Curtiz aveva gli occhi che guardavano di lato. Il suo era uno sguardo permanentemente obliquo, come avesse rinunciato per principio a guardare dritto negli occhi. Un velo giallo nicotina ricopriva la sclera. Si poteva pensare che tutta la parte interna dell’occhio, quella che non era data a vedere, fosse invasa da quel giallo nicotina, ne incrostasse l’umida superficie e che quella velatura sulla sclera fosse soltanto il segnale di una realtà sommersa e tenuta nascosta. L’Impiegato era rimasto colpito dalla fronte sporgente di Curtiz. L’aveva osservata a lungo, cercando di capire il perché di quella strana conformazione. Aveva immaginato che il cervello fosse scivolato dalla cavità cranica e spingesse sulla parete interna, come a voler uscire e liberarsi. L’osso frontale doveva aver ceduto alla pressione del cervello. L’Impiegato si era convinto che quel corrugare compulsivamente la fronte di Curtiz fosse il disperato tentativo di ricacciarlo indietro, quel cervello invadente, non sentirlo uscire dagli occhi. Curtiz se n’era andato, ma la sua presenza di uomo mal voluto diffondeva ancora nell’ufficio un odore sgradevole.

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