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Il dialetto è veniente di là, dove non è scrittura.

Sulla questione del dialetto (anche in ambito letterario) pubblichiamo una riflessione del grande poeta veneto Andrea Zanzotto e una conversazione con Gianna Marcato, dialettologa, che verrà pubblicata sul prossimo numero di “Taglio Alto” inserto culturale di “Mirano Magazine”

Il dialetto usato nel Filò è press’a poco quello che si continua ancora a parlare nella valle del Soligo (alto Trevigiano), con sfumature diverse per vocaboli, modi dire, inflessioni […] Esso resta carico della vertigine del passato, dei megasecoli in cui si è stesa, infiltrata, suddivisa, ricomposta, in cui è morta e risorta «la» lingua (canto, ritmo, muscoli danzanti, sogno, ragione, funzionalità) entro una violentissima deriva che fa tremare di inquietudine perché vi si tocca, con la lingua (nelle sue due accezioni) il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte: […] forte di tutto il viscoso che la permea riconnettendola  direttamente a tutti i contesti ambientali, biologici, «cosmici», liberando entro di essi il desiderio di espressione e l’espressione. Il dialetto è sentito come veniente di là dove non è scrittura. (Andrea Zanzotto)

DIALETTO. UNA LINGUA CONTESA TRA  GIARDINIERI  E  BOTANICI

di Paolo Gallina

Abbiamo incontrato Gianna Marcato, docente di “Dialettologia italiana” all’Università di Padova che da anni affronta la questione della lingua in territorio veneto, mettendone in risalto il valore culturale. Le abbiamo chiesto un parere sullo stato attuale del dialetto.

“La polemica che spesso contrappone la lingua al dialetto, talvolta con una forte connotazione politica, non ha ragione di esistere. Infatti io mi occupo di dialettologia italiana intesa come studio funzionale alla conoscenza dell’italiano che è fatto da lingua unitaria più dialetti in continuo rapporto tra di loro e non in contrapposizione. Nel 2004 è uscito il mio libro: Parlar veneto. Istruzioni per l’uso, che non è un testo destinato agli specialisti, ma è nato con intenti divulgativi. Già il titolo vuole essere una risposta all’accesa polemica tra lingua e dialetto. Dialetto è l’etichetta di cui ci serviamo, ma, se uno vuole, può chiamarla lingua, visto che per noi linguisti ogni varietà di lingua dalla più grande alla più piccola ha pari dignità culturale. La differenza è tra lingue codificate come l’italiano e lingue solo orali come il dialetto, che sono in balia di chi le trasmette e anche di chi decide di non trasmetterle più. Certo, il dialetto può essere scritto, però mantiene una diversità che deriva dal suo essere fin dalle origini una lingua non codificata, che si è sviluppata affidandosi all’oralità con regole trasmesse da piccoli nuclei di parlanti, magari isolati che ne hanno determinato un’ampia varietà. Per esempio tra noi e le campagne si riscontrano varietà lessicali come piter/pitaro forner/fornaro. Ci tengo molto ad affermare che il dialetto è una varietà non codificata, perché trovo insensata l’idea di una lingua veneta codificata nella quale, proprio per le varietà di cui parlavo, nessuno si riconoscerebbe.”

Mi pare che la questione dialetto/lingua sia incentrata sulla dicotomia oralità/scrittura; si pone quindi un problema relativo all’uso del dialetto in ambito letterario. In questo momento storico cosa si sta osservando a questo proposito?

“Dal 1995 organizzo annualmente a Sappada degli incontri di studio internazionali su temi riguardanti i dialetti e le lingue delle minoranze e proprio nell’ultimo incontro, ma anche in uno recente a Cagliari, ci siamo occupati di questo fenomeno. In questo momento sembra che il dialetto, forse perché è in crisi come parlata, venga utilizzato da alcuni scrittori in funzione letteraria in particolare in Sicilia e Sardegna. Noi veneti abbiamo avuto il grande Zanzotto che proprio quando ha raggiunto l’apice del riconoscimento europeo si è messo a scrivere versi in dialetto. Lui spiegava così la sua scelta: “Ti sfido con una varietà linguistica che ti è oscura, ma al tempo stesso ti do una chiave per entrare in una cultura, in un paesaggio”. Meneghello invece insiste sul fatto che con il dialetto si possono fare innesti, quelli che lui chiamava trapianti, cioè servirsi di una varietà di lingua per arricchirne un’altra e questa, secondo me, è la funzione dello scrivere in dialetto.”

In certi parlanti dialettofoni si avverte quasi un’ostentazione nell’uso del dialetto, magari ricorrendo a termini in disuso, come si volesse con questo “comportamento” linguistico affermare le proprie radici. Non crede che questo atteggiamento conservatore sia velleitario nei confronti dei rapidi mutamenti a cui oggi il dialetto è sottoposto?

“Bisogna stare molto attenti sulla questione delle radici. Con i miei studenti mi diverto dicendo loro di alzarsi in piedi e di verificare che sotto i loro piedi non ci sono radici, non sono alberi. Insistere sul dialetto come radice significa affermare un’idea di identità chiusa, immutabile a cui andrebbe contrapposta un’idea di identità aperta dove ogni esperienza mi aiuta a formare la mia identità e arricchirla.”

Ho visto che anche lei è intervenuta su “Il Gazzettino” nella querelle del restauro dei nizioleti. Di questa polemica mi ha colpito la virulenza, ma anche la partecipazione e la passione. L’impressione è che per i veneziani il legame con i propri luoghi sia molto profondo, che i nomi di calli e campi risuonino vibranti e non ammettano profanazioni. Che ne pensa?

“C’è chi fa una critica di ordine politico, perché sente offesa la lingua veneta che non c’è; poi c’è chi invece ha manifestato un approccio affettivo alla questione. Mi permetta una citazione. I linguisti sono partiti da questo presupposto: “I filologi sono i giardinieri, noi siamo i botanici! Per il giardiniere conta il fiore ed estirpa tutte le erbacce che interferiscono nella sua crescita, per il linguista è importante anche la più piccola infiorescenza. E naturalmente la polemica era contro una lingua trasmessa solo per iscritto. La polemica è nata in chi vive il dialetto come una proprietà personale ed era abituato ai nizioleti che facevano parte come un’icona di quella Venezia. Come un’esperienza rassicurante che ti deriva dal passare davanti a qualcosa di conosciuto, familiare a cui sei legato affettivamente. Agganciarsi alla filologia per correggere la tradizione ha generato dispetto. Il parlante non può legarsi alla normatività della scrittura. Secondo me ancora una volta è stato trascurato ciò che i dialettologi dicono da decenni e cioè che bisogna guardare a queste forme linguistiche come a una cultura orale.”

Oggi si discute molto sullo stato della lingua italiana, sul suo progressivo impoverimento, complice anche la comunicazione in rete, che prevede contrazioni e acronimi. Forse neppure il dialetto gode di ottima salute, cosa percepisce dal suo specifico osservatorio?

“Il dialetto vive se le generazioni che devono trasmetterlo decidono di farlo. Alcuni dicono che il dialetto è stato salvato negli anni settanta proprio da chi sapeva bene l’italiano. Perché la vergogna e il disagio di dover interloquire in un mondo nuovo con una varietà di lingua che si sapeva disprezzata ha fatto sì che solo chi aveva acquisito una certa sicurezza linguistica potesse azzardarsi a parlarlo. Il dialetto è ancora molto parlato in diverse zone, ma prendendo elementi e regole dell’italiano. C’è un concetto molto importante che mi preme affermare ed è quello dell’eteronomia Non è necessario che io mi senta autonomo perché uso una varietà dialettale. Posso usare il dialetto e sentirlo come mia lingua e sentire come mia lingua anche l’italiano. Quando due varietà sono vissute come eteronome accetto che passino regole e forme dell’una nell’altra e viceversa.”

 

FOIS. Come affondare nella cremosa atmosfera del Bologna.

Marcello Fois

È stato molto intenso l’incontro di ieri pomeriggio con Marcello Fois. Un’atmosfera particolare, avvolgente che Fois non avrebbe esitato definire …cremosa. Abbiamo lasciato l’hotel Bologna con l’impressione di non essere venuti meno al nostro ruolo di lettori consapevoli. Quel ruolo a cui ci ha richiamato lo stesso Fois. “Voi non siete lettori qualunque, siete un élite, gente che capisce. Ogni lettore deve sentirsi il datore di lavoro dello scrittore di riferimento. Se voi peggiorate, noi scrittori peggioreremo; se leggerete schifezze ci verrà chiesto di scrivere schifezze. La dismissione dal ruolo di lettore esigente e consapevole è una delle cause, forse la prima, del crollo del valore della letteratura”. Fois ci ha attribuito una grande responsabilità, ha definito quel nostro gruppo di ieri sera un’enclave, una casamatta in cui resistere e si è avvertito che con questa sua idea lui placava un’ansia. Sentiva di poter confidare che se tante piccole casematte sapranno resistere “non tutto sarà perduto”. Ci ha messo in guardia dal vezzo di essere originali fino ad affermare che chi pensa di essere originale, di scrivere qualcosa di mai scritto, evidentemente non ha letto abbastanza. Io sono arrivato a pensare che il mio maggiore talento sia stata la lettura e mi provoca ansia il pensare che c’è un sacco di libri che non riuscirò mai a leggere”. Nell’affermare che i romanzi non dicono la verità, non parlano di felicità (la felicità non fa letteratura!) Fois ha voluto dirci che la letteratura è una cosa che ci riguarda tutti, fa di noi delle persone complesse (e non complicate) è un elemento vitale dentro la cultura, non è un orpello, né un dono è semplicemente il sistema che ci siamo dati per raccontarci il mondo.

Allergica al fumo (7)

L. ci ha appena spiegato a cosa serviva la munega*. Immagino quelle braci roventi, quel rosso incandescente. Alzo lo sguardo e lo ritrovo nel volto di L. L’occhio è sbarrato, fissa la vecchia testiera del letto, come ci trovasse un’insondabile motivo di interesse. La crepa, la fessura nel legno è una voragine dove lo sguardo di L. precipita.Il suo viso sta diventando incandescente. Sembra salga dal basso. La vampata scarlatta deve aver preso origine dal centro del corpo, in prossimità dell’ombelico. È salita su per il torace, ha superato il seno, su, su per il collo; un’ascesa inarrestabile che neppure la sporgenza del mento riesce a ostacolare. Ha aggirato l’osso della mandibola per poi espandersi lentamente (ma inesorabilmente) sulle guance e poi attorno alla bocca. La mucosa delle labbra ormai si confonde con il resto del volto. Il rossore si è espanso nelle zone periferiche della testa; le orecchie lo accolgono per ultime. La testa di L. sembra un recipiente traslucido che viene riempito di un liquido rosso. E il liquido si spande dappertutto, assume la forma del recipiente che lo contiene. È un processo lento, ma è proprio la lentezza ciò che spaventa. Assistere impotenti a un fenomeno che appare inesorabile.
È un attimo. Non più progressivamente, ma di colpo. Come un lampo, come un sipario scuro che si chiude di scatto. Il rosso diventa nero. Un nero violaceo, come un ematoma. E il respiro? Solo adesso mi accorgo che L. ha sospeso di respirare. Come quando si resta in ascolto, in attesa,  mentre si avverte un rumore, magari un pericolo. Il fiato sospeso e lo sguardo perduto.
E adesso arriva anche a me. Lo sento, lo avverto sempre più forte, più presente, più spesso. A me fa l’effetto contrario, non mi blocca lo sguardo. Divento inquieto, mi prende l’affanno, mi guardo in giro come cercassi una via d’uscita. E lo vedo. Seduto in fondo alla stanza, sulla vecchia sedia da cucina impagliata. Sta ridendo. Tra le dita stringe un grosso toscano acceso. La brace all’estremità è ancora rossa dall’ultima boccata. E ride, ride. Si guarda compiaciuto la punta delle scarpe soffiando il fumo del sigaro verso il basso, per vederlo risalire lentamente ed espandersi nella stanza. Ed è allora che L. cade come un corpo morto sul materasso di scartossi*, provocando un rumore di croste.

Glossario di civiltà contadina
* munega: scaldaletto costituito da un telaio di legno dentro il quale si appoggiava  uno scaldino in rame pieno di brace.
* scartossi: le foglie secche che avvolgevano le pannocchie spesso usate per imbottire materassi (stramassi).

SCIACQUARE I “NIZIOLETI” IN CANAL GRANDE

Della polemica sul restauro dei nizioleti mi ha colpito la virulenza, ma anche la partecipazione, la passione. Ho letto molto sulla questione, dal comunicato di un’assessora (la nostra amata fondatrice) un po’ piccata, ai commenti sulla pagina FB del gruppo “Il passato e il presente dei nizioleti”, ai vari articoli di giornale. Trascuriamo: le polemiche strumentali, l’ostentata fiera appartenenza alla razza veneta, il buontempone (provocatore) che pubblica su FB la foto del nizioleto con scritto su: BARBARIA DELLE TAVOLE. Tanti parla perché i ga la boca e per darghe aria ai denti. Penso che l’assessora fosse consapevole che stava manipolando materia infiammabile, tanto che da filologa ha inteso ancorarsi solidamente a un documento: il Cattastico del 1786 che presenta però un uso diffuso della lingua italiana. Già la denominazione con la consonante geminata, che rappresenta sicuramente una forma arcaica, potrebbe far pensare a un ipercorrettismo di un dialettofono. 😉 Tutti i nativi sono legati fortemente alla loro città di origine, ma per i veneziani la forma urbis credo consegni un surplus di identificazione. Il grande psicanalista Salomon Resnik, in una indimenticabile cena alle Zattere nei primi anni ottanta, confidava a Umberto Galimberti che Venezia era una perfetta rappresentazione dell’inconscio. Oscure e intricate calli, immobili e maleodoranti rii dove il rimosso si addensa sul fondo. Forse è per questo che il legame dei veneziani con i luoghi della propria infanzia è così profondo, il nome delle calli e dei campi risuona vibrante e non ammette di essere profanato. Ha ragione l’assessora nel dire che la pronuncia del veneziano è molto diversa dalla forma scritta. Per soddisfare il veneziano (che con i nomi dei luoghi di origine ha un rapporto affettivo inalienabile) bisognerebbe accompagnare la denominazione con la trascrizione fonetica. 😉 Con la consapevolezza che la questione mobilita e agita in profondità avrei rinunciato a un po’ di rigore filologico e mi sarei concesso qualche libertà linguistica privilegiando termini invalsi. Seguendo il consiglio del Manzoni avrei preso i nizioleti e li avrei sciacquati in Canal Grande, il maledetto moto ondoso avrebbe favorito l’operazione.

SPQR Vs TVB

Su “la Lettura” di domenica tredici ottobre troviamo l’ennesimo articolo (qui) sulle abbreviazioni e sugli acronimi del texting (il linguaggio breve degli sms). L’autrice, Federica Colonna, manifesta un approccio indulgente verso questo fenomeno che si va sempre più affermando mano a mano che la comunicazione in rete conquista nuovi adepti. Un atteggiamento benevolo che sembra voler contrastare una certa diffidenza se non addirittura ostilità dell’accademia nei confronti degli acronimi diventati in alcuni casi dei veri e propri neologismi. L’articolo pullula di autorevoli contributi a favore dell’initialism (tendenza a creare nuovi termini, mettendo in fila le iniziali delle parole) tra i quali spicca quello di Ann Duffy, insegnante di scrittura creativa alla Manchester Metropolitan University,  che dichiara (con una buona dose di temerarietà) che “le poesie sono state i primi sms”. L’affermazione suscita qualche perplessità circa le competenze filologiche della docente, ma tiriamo un sospiro di sollievo nel pensare che nel 1300 Dante non sia stato costretto a digitare su uno smartphone (magari ideato dal grande artigiano fiorentino Stefano Lavoro) le tre Cantiche della Comedìa. Ma le acrobazie argomentative a sostegno del texting si sprecano. “Eppure SPQR è la stessa cosa di TVB (ti voglio bene)” e sono pure costernati nell’apprendere che “TVB non lo sopportano in molti, ma nessuno contesta SPQR”. SPQR stava a  significare Senatus PopulusQue Romanus ed è inscritto (scalpellato nella pietra) sull’Arco di Tito e sullo stemma della Città di Roma, TVB al massimo può ambire al risvolto di copertina di un libro di Federico Moccia. Ciò che traspare è la mancanza assoluta  della consapevolezza che l’uso massiccio delle abbreviazioni (nella varie forme) rappresenti una perdita, un impoverimento della lingua. E ce ne dà una plastica dimostrazione la stessa autrice Federica Colonna laddove scrive: “Insomma: scrivere MILF per indicare una donna adulta, madre e attraente ci renderebbe più intelligenti.” L’acronimo MILF sta a significare  Mother I’d Like to Fuck (una mamma che mi piacerebbe chiavare). Con eleganza la Colonna evita di sciogliere fedelmente l’acronimo MILF e si avvale di una tra le molteplici figure retoriche: l’eufemismo. Siamo davvero sicuri di voler rinunciare alla ricchezza della nostra lingua?

Letteratura sessuata

Il dibattito sulla specificità di genere nella letteratura è approdato sull’inserto “la Lettura” del “Corriere della Sera” di oggi domenica 6 ottobre. A riaccendere la questione David Gilmour, canadese docente di letteratura, che, con sprezzo del pericolo, ha affermato la sua predilezione per gli scrittori maschi, scatenando il finimondo con accuse di sessismo, ignoranza e stupidità sui principali social network. I suoi gusti letterari sono certamente legittimi, ma che lo spartiacque tra letteratura più o meno autorevole sia determinato dal genere appare francamente insostenibile. Cosa diversa è interrogarsi se esiste uno specifico letterario femminile e uno specifico letterario maschile. Ed è ciò che fa Giulio Mozzi, mentre secondo Massimo Onofri non c’è (non più) differenza tra la scrittura femminile e quella maschile. E se provassimo a trasferire il “pensiero della differenza sessuale” alla letteratura? Luce Irigaray afferma che la Natura è sessuata, il Linguaggio è sessuato forse si potrebbe affermare che la Letteratura è sessuata. Se come dice Irigaray, parlando del linguaggio sessuato “la marca del genere nella lingua (…) spesso è rivelatrice di fenomeni sociali e storici. Mostra chiaramente come un sesso abbia sottomesso a sé l’altro o il mondo” potremmo pensare che tutto ciò si riproduca anche nella creazione letteraria. Non donne che “scrivono come gli uomini”, ma donne e uomini che consapevoli della loro differenza e della loro parzialità scrivono con la loro specifica modalità di stare al mondo.

Il Capoufficio (6)

Arrivò il Capoufficio. Il raggio di sole, che si era insinuato tra le venetian blind, fece brillare i galloni che portava sulle spalle. Questo perché era molto alto, altrimenti il raggio si sarebbe proiettato sopra la testa. Oltre, sul muro sporco. Con indifferenza chiese una cosa all’Impiegato. “Niente, mi dispiace signor Curtiz, non riesco a trovarla” disse con voce flebile l’Impiegato, dopo averla a lungo cercata. Curtiz guardò di sbieco il gallone sinistro spento, corrugò la fronte, portò il labbro inferiore su quello superiore (l’Impiegato notò che proprio sotto la bocca, dove iniziava il mento il gigante si era tagliato radendosi) fece una smorfia, che gli tenne impegnata tutta la faccia, e se ne andò. Questa volta il sole mancò il bersaglio, un raggio cadde sul muro, non senza illuminare, per un attimo, un piccolo ragno che arrancava sull’intonaco crepato. Curtiz aveva gli occhi che guardavano di lato. Il suo era uno sguardo permanentemente obliquo, come avesse rinunciato per principio a guardare dritto negli occhi. Un velo giallo nicotina ricopriva la sclera. Si poteva pensare che tutta la parte interna dell’occhio, quella che non era data a vedere, fosse invasa da quel giallo nicotina, ne incrostasse l’umida superficie e che quella velatura sulla sclera fosse soltanto il segnale di una realtà sommersa e tenuta nascosta. L’Impiegato era rimasto colpito dalla fronte sporgente di Curtiz. L’aveva osservata a lungo, cercando di capire il perché di quella strana conformazione. Aveva immaginato che il cervello fosse scivolato dalla cavità cranica e spingesse sulla parete interna, come a voler uscire e liberarsi. L’osso frontale doveva aver ceduto alla pressione del cervello. L’Impiegato si era convinto che quel corrugare compulsivamente la fronte di Curtiz fosse il disperato tentativo di ricacciarlo indietro, quel cervello invadente, non sentirlo uscire dagli occhi. Curtiz se n’era andato, ma la sua presenza di uomo mal voluto diffondeva ancora nell’ufficio un odore sgradevole.

L’amico di strada (5)

di Giuliana Musotto

Un vecchio stanco e solitario. Un giovane pieno di vita ed espansivo. Si erano incontrati per strada ed erano diventati amici. Strana amicizia, diceva la gente, eppure così intensa da decidere di condividere la vita. Il vecchio era uno studioso. Matematico, astronomo, poeta, musicista e letterato, sapeva di greco e di latino, conosceva il sanscrito e l’antica lingua egizia. Il giovane non aveva mai studiato. Non sapeva né leggere né scrivere. Le note di una sinfonia erano per lui rumori stridenti, eppure amava ascoltare il suo amico quando suonava, seguendo  i movimenti veloci della dita sulla tastiera. Non era un esperto del cielo. Guardava le stelle, questo sì. E spesso il vecchio lo vedeva assorto in giardino ad osservare la volta celeste nelle chiare notti d’estate. Perché amava il firmamento, la luna e il sole, ma non ne conosceva il nome, né distingueva Sirio da Orione. Non sapeva contare, ma possedeva il senso del tempo. Non sapeva articolare parole, solo qualche suono indistinto, ma aveva imparato il linguaggio del suo amico. Non aveva mai sentito parlare di dinamiche del comportamento o di complessità della psiche. Ma gli  bastava uno sguardo per leggerlo dentro. Gli stava vicino senza chiedergli niente, senza mai importunarlo. Una intimità primitiva e vitale. Lui era incolto, è vero, eppure  aveva insegnato al vecchio le cose non scritte sui libri. E il vecchio aveva imparato la fiducia, il disinteresse, l’appagamento e la dedizione: era tornato l’uomo che si era dimenticato di essere. Andavano ogni giorno insieme per i campi sulle colline verdi, camminavano per ore senza sapere dove, finché il giovane, pago delle sue corse, si sdraiava stanco sull’erba, e gli regalava lo spettacolo dell’orizzonte. Oggi il giovane l’ha lasciato. Se n’è andato dopo undici anni. Il vecchio l’ha visto morire. Ha visto nei suoi occhi la paura. Gli ha dato la propria mano e l’angoscia si è spenta. Era di nuovo felice il giovane, con gli occhi pieni di cielo, con il cuore rigonfio di affetto. Si chiamava Chicco. Un meticcio dal pelo nero e fulvo, dagli occhi grandi e puri. Era stato abbandonato in una strada di campagna dove il vecchio, in un giorno ormai lontano, si era trovato a passare.

(Questo è il quinto personaggio ospite della categoria “Personaggi”. Il secondo che ricevo dai frequentatori del blog. Grazie a Giuliana per il suo contributo. Rinnovo l’invito  a popolare questa galleria. L’unica regola è quella di scrivere testi di 300/400 parole, raccontando un personaggio. Spedite i testi a paologallina@gmail.com  saranno pubblicati sul blog.)

Il banchetto dei libri usati

Mi è capitato in una sagra paesana, di quelle che si organizzano d’estate (magari occupando con i tendoni il campo sportivo parrocchiale) di avvicinarmi al banchetto dei libri usati e di essere attratto da un libretto “Einaudi Tascabili. Stile libero.” È incredibile come nel coacervo di libri dalle disparate dimensioni e dalle copertine policrome salti agli occhi un libretto modesto nelle proporzioni, tenue nei cromatismi. Brillava di luce propria come una pepita d’oro tra migliaia di sassi in un torrente. Il fatto è che “Einaudi Tascabili. Stile libero.” per noi, di una certa età, è friendly (nonostante l’età ho dismesso l’autarchico familiare); lo riconosciamo subito per il disegno di Pericoli in copertina o per l’inconfondibile costa color giallo o l’immancabile ellisse con inscritto il celebre struzzo ornato dal lungo nastro tra le cui volute si legge SPIRITUS DURISSIMA COQUIT. In quel banchetto di libri non figurava nessun Oscar Mondadori, sarebbe stato altrettanto friendly con la sua inconfondibile “O” con inscritta la nera silhouette della celebre statuetta. Ricordo che in una delle mie visite a casa sua, Luigi Meneghello mi mostrò molto compiaciuto l’edizione negli Oscar Mondadori di Libera nos a malo “È molto bello questo libretto, non trovi?” mi disse in un italiano perfetto ma “cantando” un po’, così come fanno i vicentini di origine dialettofona. Confesso che da quel giorno tutte le volte che mi è capitato in mano un Oscar ho avuto un approccio friendly cercando di dimenticare l’innominabile proprietà della casa editrice. Tornando al libretto della sagra paesana, che ho acquistato per il modico prezzo di un euro, si trattava di un autoritratto delle ragazze e dei ragazzi italiani tracciato con centinaia di lettere, racconti, poesie inviate dai ragazzi stessi ai due curatori Caliceti e Mozzi. Il libro è molto bello, ha una grande potenza emotiva, si tratta di una spudorata messa in scena dei sentimenti adolescenziali, ma anche di un’invettiva contro gli adulti, che spesso vira in un atteggiamento di indulgenza e pietas. Un’interessante lettura per genitori. Dalla pubblicazione di questo libro sono passati sedici anni e i ragazzi e le ragazze che lo hanno “scritto” ormai sono adulti. Mi chiedevo se gli adolescenti di oggi si riconoscerebbero ancora nell’autoritratto dei loro ex coetanei. Questa riflessione nasce dalla lettura della nota in limine dei curatori, in calce alle quale ci sono i ringraziamenti. Tra i vari ringraziamenti c’è questo: “Ringraziamo Marco Pantani che, mentre noi sudavamo sulle nostre scatole da scarpe, (utilizzate dai curatori come contenitori delle centinaia di lettere arrivate N.d.R.) vinceva splendidamente sull’Alpe d’Huez. Questo libro è dedicato a lui e a tutti i giovani ciclisti in salita.” Sono passati solo sedici anni, ma stiamo parlando di un’altra era. Pantani non c’è più, morto neanche sette anni dopo l’impresa dell’Alpe d’Huez nella stanza di un residence a Rimini per un overdose di cocaina. Ma soprattutto non c’è più quell’icona che faceva scrivere ai curatori: vinceva splendidamente sull’Alpe d’Huez e lo faceva diventare simbolo di tutti i giovani ciclisti in salita. Perché su quelle vittorie esaltanti si è allungata l’ombra del doping. È come se il tempo svelasse le illusioni, rendesse inservibili i miti. Quanto bella era l’immagine usata dai curatori tutti i giovani ciclisti in salita con la quale volevano rappresentare metaforicamente le ragazze e i ragazzi del libro, impegnati nella difficile salita dell’adolescenza? Un’immagine bella e fallace. Come la leggenda del Pirata.

G. Caliceti e G. Mozzi (a cura di), Quello che ho da dirvi. Autoritratto delle ragazze e dei ragazzi italiani, Einaudi, Torino, 1998.